Descrizione
PREFAZIONE (Fuori libro) di Laura Costantini
Alla terza lettura, comprendo che il microcosmo sapientemente descritto dall’autore mi appare in una nuova, inedita prospettiva.
Le descrizioni minuziose di un’umanità distorta, beffarda, intrisa di delirante egocentrismo e, al contempo, di disincantato ardore, appaiono non più contrassegnate esclusivamente dalla seppur tangibile vena umoristica, bensì dal desiderio impellente di calarsi in una riflessione intimista che trascende la natura stessa dell’individuo.
Il protagonista, l’io narrante che introduce il lettore nel suo mondo carico di rimpianti, bravate e memorie d’antan, affida la propria identità all’artificio della macchina da presa e, in un moderno, incalzante flashback, si lascia trasportare dalla corrente inesauribile dei pensieri, consapevole di come sia estremamente più semplice consegnarsi all’“occhio magico”: “…scelgo così perché non sono sicuro di poterlo fare davanti ad un normale specchio. L’occhio – non per nulla si dice: obiettivo – invece, è uno specchio che come gli altri mi vede, mi pensa, mi riflette, sì, ma lo fa da un’altra parte, nella quale non potrò ritrovare il contatto con me…”.
Il nostro eroe-non eroe, come si evince nel corso della vicenda, ha bisogno di addentrarsi nei meandri della propria psiche angosciata da un passato turbinoso, a tratti indolente e privo di stimoli, per recuperare, attraverso numerose digressioni, le suggestioni vivide e nostalgiche di una giovinezza che mantiene, tuttavia, un filo diretto con la cupa malinconia del presente.
Un sogno notturno, arrivato durante l’infanzia e pervaso da un’aura magica e arcana, lascia subitaneamente spazio alla tormentata ricerca della misteriosa donna del destino, colei in grado di accendere le velleità amorose dell’uomo ma, proprio in virtù di ciò, irraggiungibile. Si capisce alla sua prima e unica apparizione: “Bella, era bella. Fastidiosamente. Ti metteva addosso (…) la malinconia per qualcosa che non si è vissuto. Misteriosa, ugualmente: i presenti poco (o meglio nulla) di lei sapevano; di certo possedeva quel magico senso identificatore del preciso istante in cui è seducente andar via…”.
Una femme fatale, insomma: un invisibile fil rouge che collega eventi, avventure, episodi, rocamboleschi colpi di scena, al prezzo di un’agognata ma impossibile felicità.
A tratti, ineffabile insinuatore di pittoresche e poco consolatorie meditazioni, compare l’alter ego, il divinatorio Fil. Questi, bisognoso di conforto più di quanto non lo sia il protagonista, si presenta attraverso lo specchio; anziano nelle fattezze, saggio ma non troppo, dispensatore di consigli ma devastato dagli acciacchi nel corpo e nell’animo. Lo sorprendiamo a rincorrere, con nostalgiche allusioni, ricordi dolci-amari dei defunti genitori – con particolare riferimento alla figura paterna – per poi vagare, in modo del tutto rapido e imprevisto, nel mondo confuso, grottesco e bislacco delle molteplici comparse umane, avvolte da un’atmosfera trasecolante, fantastica, sovente ammaliante.
Donne e uomini, esseri tracotanti, stolidi, smargiassi, indolenti, dalla condotta esecrabile o corrotta, ignorante o intenzionalmente artefatta che favellano di questo e di quest’altro, passano inesorabilmente davanti alla telecamera delle memorie. La commistione dei registri linguistici utilizzati dall’autore rende il loro pensare, parlare e agire – così come il loro sciorinare verità assolute ed emettere sentenze – volutamente assurdi, esilaranti, privi di logica. Ecco allora Marpessa, l’amica di gioventù, creatura di non accertate origini, trasgressiva, quasi sempre ubriaca, impietosa con la natura in tutte le sue forme; l’ottimo Pignone, senza arte né parte, imbecille per definizione, ingenuo quanto basta per andare a procurarsi platoniche soddisfazioni sensuali, mentre la moglie Maddalena (ironia della sorte) lo tradisce amabilmente con il dentista Lendeloni e con mille altri amanti, compreso il protagonista del romanzo; il dottor Santini, medico abbastanza curante, nonché ciarlatano da quattro soldi; il nano d’importazione, un farabutto mignon: essi tutti passano sotto la lente crudele e sarcastica dell’autore.
Ad alcuni non ci si può affezionare troppo poiché scompaiono da sotto il naso, come in una fugace visione, un limitato barlume di conoscenza destinato a non lasciare tracce se non qualche spontanea, irrefrenabile risata. Altri, tuttavia, restano, lasciando un segno nell’esistenza del protagonista e dell’io altro. Mi riferisco a Pignone e al quasi-poliziotto, i quali intraprendono con lui l’improbabile viaggio alla ricerca della donna affascinante e irraggiungibile già menzionata.
Guiomare Giuliano – l’altro originale comprimario, per l’appunto – la cui vita scialba e inutile, condita di spassose vicissitudini, fa da contrappunto al nobile benché paradossale incarico di aiutare il nostro eroe a coronare il suo sogno d’amore, è una vera e propria macchietta. Disperato per esser stato piantato in asso dalla compagna, avida di denaro e lussuria, e desideroso di farla finita infilando la testa nel forno a gas, si ritrova a scambiare battute dalla comicità immediata con la portinaia dello stabile: “In una botta sola ho perduto l’amore, il denaro, l’ombrello!” – “Sciocchino! Le restano il paltò, la salute, l’appetito!”.
Si giunge fra intrallazzi, confessioni, frizzi e lazzi alla sorpresa finale, che lascia il lettore sospeso fra ciò che poteva essere e non è stato, probabilmente intristito dallo spegnersi di quel riflettore rassicurante che prometteva un epilogo appagante, risolutivo, felice. Forse, è stato solo un sogno.
Lo sa lo specchio.
Quel geniaccio di Danilo Cannizzaro è riuscito a creare una pregiata opera che ti seduce con la sua armoniosa cadenza ritmata: ogni parola è generosamente elargita nella sua primitiva musicalità e nulla è lasciato al caso. Tormentoni come “Bouhf!” e “Clic!” aprono e chiudono sequenze descrittive e indagini emotive con una naturalezza a cui, piacevolmente, il lettore si abitua e si affeziona. In assenza di coordinate temporali precise e determinate, i personaggi acquistano vita propria e diventano bersagli satirici, immortali perle d’arte, nell’avvicendarsi di furbesche parodie, colte citazioni, umoristiche e sagaci battute che confermano le magistrali abilità linguistiche dell’autore.
Non di rado, ti imbatti in mirabili considerazioni dal sapore filosofico che aprono la strada a una profonda e dolorosa analisi introspettiva, come la seguente: “…le labbra di quelle maschere mitologificate (…) parevan promettere una forma ipotizzabile d’amore che racconta come in qualsiasi donna permane una seppur remota possibilità di amare, anche quando non ama che sé stessa mentre sacrifica per altri persino l’amor proprio – cosa che rende impossibile forse distinguere questo sentimento da ciò che può ritenersi autentico affetto”.
Il finale (non scontato!) attesta l’omicidio premeditato della trama, allo scopo di esaltare la fantasia e la versatilità di uno scrittore che riesce a dar respiro persino alle entità inanimate, che compone un teatro forsennato e che non perde mai di vista quell’occhio interiore, ebbro di surreale originalità.
Calembours – Lo sa lo specchio non è opera facilmente classificabile; Cannizzaro lascia al lettore l’onore di tradurre il suo talento con la sensibilità estetica che gli si addice, compendiata da uno stile smanioso e folle, classicheggiante e barocco, moderno e architettonico.
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