Descrizione
Dal primo capitolo:
Ci sono cose indelebili che non potrò mai dimenticare. Cose che mi hanno fatto soffrire, piangere e crescere. Cose rimaste come cicatrici, che quando qualcuno dovesse mai anche solo sfiorarle, sentirei ancora quella strana sensazione di ricordi opprimenti a prendermi anima e cuore.
Mi chiamo Ombretta e oggi sono una donna di quarant’anni e un sacco di esperienze in giro per il mondo, ho iniziato a viaggiare a diciannove, ma non per un Erasmus tipo roba da doposcuola tutti d’accordo in famiglia, io scappai; scappai da una situazione in casa, al limite della durezza.
Tutto iniziò il giorno del mio ottavo compleanno, dove per colpa di alcuni schiamazzi del tutto innocui, le presi. Ne presi tante e le presi forte. Troppo forte. Quel tipo di percosse quindi, si protrassero da quella volta in poi, come normale sistema educativo sino alle porte dei diciotto anni.
Durante quei nove anni, tra alti e bassi, combattendo per essere una bambina normale, integrata tra i miei coetanei e con un infinito desiderio di essere felice, ho sempre brancolato tra fatica e sconforto non riuscendo a capire mai, perché fosse capitato proprio a me e perché non potessi essere una bambina normale, con una famiglia normale e magari, passare pure inosservata.
Ma col tempo capii, o mi volli raccontare da sola, che se nella mia vita fosse stato tutto normale, non sarei mai riuscita a fare ciò che in seguito ho fatto.
Non sto incolpando nessuno ovviamente, la mia famiglia era composta da brave persone, ma cresciute in un contesto limite, facendo ciò che sapevano o potevano fare, per il bene dei figli e per problemi passati eternamente irrisolti e purtroppo, costantemente presenti. Quindi non avrebbe senso raccontare ogni singolo episodio, per me considerato al limite, di quella che prima ho chiamato durezza. Potevo chiamarla fermezza o forse violenza – almeno per me – ma una cosa è certa, tutto quello mi insegnò già in tenera età, a combattere per i miei diritti ad avere i miei sogni.
Non ho mai accettato il classico – No! Perché te lo dico io e basta! – senza alcuna spiegazione. Il risultato fu quindi che piuttosto mi prendevo le botte, i calci, i piatti dietro, ma niente! Io ero cosi!
A quanto pare, l’universo della sorte ci fa nascere in famiglie dove solo il cambiamento attraverso quel vivere è la gavetta per essere pronti a fare ciò che realmente sogni.
Poi da piccola ero messa da parte anche dai miei coetanei e derisa per il mio aspetto piuttosto impacciato. Passai quindi la mia infanzia, a sopravvivere a quello che oggi viene chiamato bullismo. Le maestre e i genitori all’epoca, non davano molto peso a queste cose e dalla terza elementare iniziai ad andare male a scuola.
Rimasi molto tempo, o quasi, senza parlare, perché ero diventata balbuziente e a scuola non riuscivo a leggere ad alta voce e tutto questo veniva visto in maniera piuttosto severa. Il mio sogno divenne presto scappare da tutto, crescere più velocemente possibile, per viaggiare in un altro mondo, piuttosto che in quello lì; un mondo pronto ad attendermi, per un futuro avventuroso e mi vedevo con gli occhiali a specchio su una bella macchina, sicura di me e ripensando a quei sogni di bambina ancora oggi sorrido.
Poi tutti vollero che facessi degli studi normali, per un lavoro normale, magari statale. Per una vita che entrasse negli standard, dello standard ancor più assoluto e per me tutto questo significava una noia immensa.
D’altronde come biasimarli? Mio padre lavorava e aveva lavorato tutta la vita nelle Ferrovie dello Stato ed insisteva che vi entrassi anch’io. Ma non ne volli mai sapere. Come potevano mai pretendere che potessi avere una vita normale quando la mia crescita era stata completamente anormale? Volevo viaggiare certo, quello sì, ma non su di un treno avanti e indietro a timbrar biglietti o a guidarlo su quei binari dritti che neppure avrei potuto scartare di lato, e parafrasando una canzone, quello decise la sorte, l’avvenire dei miei passi e il mio mestiere.
Ma il risultato fu che ciò che mi insegnavano a scuola mi sembrava inutile per la realizzazione di quel mio sogno e quindi, studiavo esclusivamente quello che mi interessava e per il resto, anche volendo, non c’era verso.
Nel periodo dell’adolescenza fui molto ribelle. Non sopportavo gli ordini e le imposizioni. Quindi giravano schiaffi senza un preciso perché.
Frequentai varie scuole tra cui una cattolica.
Le imposizioni di quelle suore, che sembravano gendarmi, mi facevano sentire perennemente a casa, con in più, l’assillo ogni giorno di andare in chiesa a pregare e cantare. Ma era anche il mio periodo dark sia dentro che fuori. Vestita tutta di nero con anelli e teschi e croci al collo, la mia ribellione continuava verso un sistema a me imposto, ma che rifiutavo con tutta la mia volontà.
Dopo due anni fui cacciata e ne fui felicissima.
Continuai quindi gli studi in una scuola statale e passai da timida introversa a teppista strafottente in un attimo.
Entravo dalla porta principale e uscivo da quella di servizio e ancora mi sembrava di perdere tempo. Quindi ad ogni fine anno scolastico era un’ansia per mia madre pregare tutti i suoi santi che fossi promossa; per quel che mi riguarda invece, l’unica ansia che avevo, era quella di non prenderle e per il resto poco m’importava.
Per spostarmi avevo uno scooter, che come se non bastasse, era straelaborato e con quello sfrecciavo a tutta velocità per la strada che portava dal paesello alla città.
Quindi iniziai a frequentare un gruppo di amici che chiamavamo la compagnia del muretto; ragazzi piuttosto ribelli che come me si riunivano per divertirsi. Avevano tutti problemi di droga e furti ma vedendo la loro reazione quando erano fusi, mi tenevo ben lontano da certi tipi di robe e per fortuna non li frequentai per molto tempo.
Iniziai a lavorare per riuscire a comprarmi un mezzo di trasporto migliore di quella motoretta sgangherata e ritoccata. Già a sedici anni imparai a guidare la macchina e a diciotto avevo, come per dire, la patente in mano e una fretta di crescere che correva più di me e del mio vecchio motorino messi assieme. Ma vissuta fino a quel momento in un paesino di duecento abitanti, a nove chilometri dalla città più vicina, con un fiume, un ponte, un negozietto e un bar, sinceramente chi non avrebbe voluto evadere da lì?
Come ebbi un’auto mia non persi l’occasione di girare per un po’ l’Italia con Simona, una ragazza di Milano che avevo conosciuto al mare durante una sua vacanza dalle mie parti. Con lei fu connessione al primo istante ed un modo come un altro per vedere posti diversi dai soliti, andare avanti e indietro da quel sopra a quel sotto tutto paesello e ritorno.
Simona era molto istruita e intelligente. Cresciuta in una grande città e quasi avvocato, mi insegnò l’amore per la lettura e la scrittura e un po’ di altre cosine tutte viste dal suo punto di vista, ma che io ritenevo piuttosto acuto. Andavo spesso a Milano e a Como a trovarla e stavamo lì durante i weekend e lei un po’ mi insegnava come funzionavano le cose nelle grandi città e per me aumentava la consapevolezza dei grandi orizzonti del mondo che prendevano forma sempre più consistenti. Iniziammo così a pensare alla grande riguardo ai viaggi.
Simona mi parlava spesso di Londra e mi portava sempre quelle riviste con gli annunci di vacanze studio/lavoro e non si parlava d’altro. Sta di fatto che due anni dopo eravamo a prendere per la prima volta, almeno per me, quell’aereo che ancora ho a memoria destinazione London.
La mia famiglia non era d’accordo, soprattutto mio padre. Mi sembra ancora di sentirlo: “Cosa pensi di fare là? Chi ti credi di essere? Pensi di essere più degli altri? Tanto fallirai e tornerai a casa molto presto.” Ma era un modo, del tutto suo, di dirmi che mi voleva bene e che non voleva che partissi e così non mi parlò più per un anno.
A Londra, città dalle mille luci, con odori profondamente multietnici, fredda fuori e calda dentro ma nella quale per arrivare al caldo dentro prima devi camminarvi per tutto il suo freddo, mi ritrovai parlando poco la lingua e con sensazioni miste di pancia, brivido, paura e adrenalina. Non mi sembrava vero che la bambina piccola e fallita avesse avuto il coraggio di andarsene veramente.
Poi vedevo tutto immenso. Quelle strade ampie a cinque corsie, completamente al contrario, dal senso di marcia delle auto a dove guardare per attraversarle. E tutte quelle persone in metropolitana che sulle scale mobili rimanevano sul lato destro rigorosamente in fila indiana, per dare passo sulla sinistra a chi avesse fretta. E quei ragazzi, che con i loro strumenti musicali, cantavano per qualche pounds, continuando a seguire anche loro, in fondo come me, un sogno appena nato, dando, almeno in quel momento, colore e armonia alla frenetica Tube.
Per me questo era allora quasi improponibile anche solo qualche giorno prima, provenendo da quel mondo tutto in una stanza appena sganciato.
Ero partita con Simona che parlava inglese e questo mi avrebbe aiutato; ma fu per poco però, o almeno solo per buona parte dell’inizio, poi Simona si innamorò di un australiano e si dimenticò di me.
A Londra se non parli la lingua ti sbattono le porte in faccia; e pensare che l’inglese era da me considerata una delle materie più utili da studiare a scuola e difatti ero anche piuttosto brava, ma troppo scolastica per cui alle prese col cokny, come lo chiamano loro, non c’era niente da fare: dovevo attrezzarmi.
Frequentai così qualche breve corso ma con scarsi risultati. The english on the road alla fine mi risultò più facile per l’apprendimento con l’aggiunta di qualche studio autodidatta di grammatica.
Vivevo a Dover House, Guest House in Westminster Bridge Road in centro, vicino ad House of Parliament e al Big Bang, era un edificio di abitazioni sparse per tutta la città create da naziskin italiani in esilio dove c’erano regole piuttosto severe.
Avere una casa in affitto lì, se non avevi le credenziali di una banca e un lavoro, non te la davano. Ma nonostante tutto era molto mal tenuta e funzionava tutto a malapena. Avevamo bagno e cucina in comune con un sacco di persone provenienti da ogni parte del mondo e vivevamo allo stato brado. I bagni con le mattonelle di colore giallo, che non ho mai voluto sapere se fossero del colore originale o lo fossero diventate, due water, due docce per le cinquanta persone di tutto il piano e una cucina molto misera, con un tavolino per due persone, tre fornelli, un lavandino e nell’angolo la lavatrice.
L’importante era non dimenticarsi mai nulla se no non lo trovavi più…
Iraide
Cos’hanno in comune il giorno e la notte? Se cerchi la risposta a questa domanda sei nel posto giusto caro lettore. Questo libro tenterà di mostrartelo tra parole fatte di lacrime, sudore e passione. Esso non è statico oggetto, ma vivido soggetto. Se sceglierai di morderne le pagine troverai abbondante contrasto, condito con una buona dose di equilibrio e con un pizzico di sognante follia. Ti imbatterai nella vita irriverente e scabrosa di una donna impavida, che mise le briglie alle onde dell’Atlantico e respirò l’aria densa dell’Himalaya; una donna che scese in basso tra le dolorose viscere della Terra e risalì da quell’abisso per elevarsi nel Cielo blu notte del Deserto marocchino e volare con le aquile del Gange. Preparati: se inizierai con Prema questo percorso, dovrai metterti in gioco e conoscere segreti potenti e drammatiche verità; dovrai guardare in faccia limiti e freni emotivi che spesso condizionano l’esistenza degli uomini e forse, potrai scorgere allo specchio il riflesso del tuo vero Io attraverso l’immagine dell’autrice. Non temere: lei ti guiderà e ti accompagnerà nella tua scoperta e ti insegnerà che non può esistere il coraggio senza la paura. Qui si parla di una Donna che si mette a nudo, gridando il diritto di esistere e di esprimersi liberamente, in quanto femmina e in quanto essere umano. La vedrai crescere e la seguirai mentre comprende come accettarsi, scoprendo nella propria fragilità la sua più grande forza. Non troverai parole altisonanti ma parole piene di emozione e di sincerità che guideranno alla consapevolezza che la Vita è giusta e se saprai ascoltarla, ti condurrà là dove sei destinato ad andare. Abbi fiducia. Buon viaggio.
L’autrice e le sue riflessioni
Questo libro è dedicato a mio padre che in qualche modo mi ha insegnato l’arte di arrangiarmi, un ringraziamento di cuore, a mia sorella che col tempo ha creduto in me e un grazie a mia madre che è sempre stata pronta ad aiutarmi ovunque fossi. Un grazie di cuore a Marek che ha condiviso più di sei anni con me e mi ha insegnato veramente tanto e Un grazie enorme a tutta la grande famiglia mondiale che sempre mi ha teso una mano e sempre mi hanno abbracciato e non infine ma in tutto questo, un grazie enorme all’uomo che ha cambiato la mia vita, Prema Baba, che accompagna il mio cammino di ogni giorno. ma soprattutto a me che grazie alla decisione di condividere la mia storia ho trovato perdono e gratitudine infinita… Grazie, Grazie, Grazie.
Nessuno di noi è nato sbagliato, ma è nato giusto per il compito che lo aspetta. (Francesco Grandis)
Se hai il coraggio di essere folle, ben presto il mondo inizierà a rilevarti i suoi misteri… (Osho)
Nella vita la tragedia non è la morte è quello che lasciamo morire dentro di noi mentre viviamo (NORMAN COUSIS)
Se puoi sognarlo, puoi farlo… (Walt Disney)
Il vero viaggio della scoperta non consiste nel cercare terre nuove ma nel guardare con occhi nuovi… (MARCEL PROUST)
Chi ha paura di soffrire , soffre sempre di paura (ANONIMO)
Non importa ciò che fai ma quanto amore ci metti (MADRE TERESA DI CALCUTTA)
Avete i vostri colori, avete i vostri pennelli , dipingete il paradiso ed entrateci dentro (NIKOS KAZANTZAKIS)
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