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IL SALUTO DI GORAN, Romanzo, di Michele Laviola

18,00€

PREZZO VALIDO SINO AL 9 GENNAIO 2022 anche per gli iscritti alla Associazione Culturale L’Inedito.

Isbn: 9788894331936

Pubblicato nel 2018; 140 pagine 100gr

Copertina plastificata 250gr, flessibile, con bandelle

Collana Anteprime

Sull’autore:

Michele Laviola

— OPPURE —

Categorie: LIBRI DE L'INEDITO, NARRATIVA
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Descrizione

Inizio del libro

“…La casa è sfitta. Il cielo è la dimora dello spirito. La gravità stabilisce il prezzo. L’energia si consuma. Ogni cosa è perduta”.

Goran proferì queste sue ultime testuali parole prima di addormentarsi avulso da tutto, raggiungendo con la vista l’ultimo angolo in alto a destra della camera nella quale il suo corpo era ospitato.

“Il sonno è una chiara manifestazione di scambio energetico tra l’uomo ed un suo prodotto, il letto. Il letto contiene un’assurdità di informazioni, dalla sua natura più intrinseca al movimento di macchinari e cellule con cui si è confrontato.

Quando si produce un oggetto ben definito nella sua forma e nel suo peso non è la natura ad essere trasformata e resa più umana, ma è l’uomo ad adeguarsi e trasformarsi in base ai canoni della natura umana. Questo si chiama società.”

In lontananza gli ultimi rumori. Un motorino che ronzava tra le arterie della Città Infinita. Le onde del mare, seppur lontane, producevano il loro moto perpetuo. Tutto in continuo movimento. Il bar e la sua macchina del caffè. La disperazione di chi non dorme mai. L’odore dei fumi di scappamento: una coltre grigia che aleggia pure di notte.

Poi il sonno si fece vero.

Ora era sveglio nuovamente.

Le mattine, quelle calde, ma senza tepore alcuno, si ripresentavano ogni giorno.

Il sole anche dietro le nuvole si solleva sempre. L’acqua ristagna. I polmoni riprendono il loro usuale funzionamento incassando e sputando. Il sudore si raccoglie e le auto ripartono.

“Quanta morte nel letto, quanta vita nelle culle. Il giorno è giovane. Il crepuscolo è ancora lontano. I fiori sui balconi. Il porto non dorme mai. I seni e le labbra si incuneano alacremente tra gli sguardi incantati dei coinvolti. Le croste e le scorie. Il trambusto della vita si rinnova”.

La sveglia ha squillato, il suo timbro si accordò perfettamente al battito di Goran.

La città tornava a regime. Il sole posato nel cielo infinito impone alle stelle, apparentemente lontane, di non avere più alcuna età.

“Del legno bruciano le ambizioni non soddisfatte, orfani gli umani restano”.

Goran, il suo corpo, la mente: un sistema umano in moto tuttora anestetizzato, sta sul letto.

Il suo sonno ormai venne molestato dal furore sonoro che proveniva da oltre le mura stesse della stanza, proprio tra la concomitanza della fine delle pareti interne e il rimbalzo vocale proveniente dall’esterno.

Dal balcone, orde di centauri in corsa infestavano le strade della Via Infinita.

Un drappello compatto inseguiva il centauro pilota in fuga, distante una decina di metri. Quello in testa

inseguiva un’auto che procedeva alla stessa velocità su cui era stato impiantato un cartello arrecante la scritta:

“Lo spazio rende possibili gli spostamenti, la distanza caratterizza le nostre posizioni, il movimento unisce spazio e tempo.”

Il trambusto echeggiava tra le vie. Brulicano le genti. Il mondo indossa l’abito più consono. Il frastuono diventa il veicolo comunicativo con cui i motori si incontrano sulla stessa linea di incidenza. I tempi viaggiano in un perfetto sincronismo con uno scarto di errore piuttosto blando. Il telefono squillò. Il caffè era pronto. Il cielo terso.

Si è sempre pronti a commisurare la propria energia, dosare la propria carica collaterale e scambiarla ed impattarla nel dedalo del proprio destino. Goran rispose alla chiamata.

La sua voce. Il suono. Le onde, si uniscono all’unisono ma breve è l’equilibrio in cui ogni cosa vive. Miglia più lontane, il suo amico Gerald entrava in contatto con lui. Si trattava di una svolta, così pareva! La svolta che tutti aspettano, chi con ansia, chi sottaciuta, chi incurante, chi desideroso, chi rassegnato.

“Quando non si vuole far i conti con noi stessi allora, ogni cosa non ci appartiene e tanto meno il torto. Il mondo è una puleggia, a tirarlo su ci pensano i pianeti. Noi siamo spettri vaganti. Riflettiamo la meccanica dei suoi ingranaggi”.

Le due voci si accordarono perfettamente, i saluti furono scambiati, la reticenza velata, l’appuntamento venne fissato.

Poi il caffè, quindi Goran si ritirò in bagno. Acconciava se stesso come di consueto, si vestiva della divisa di sempre e assumeva i suoi connotati da esterno.

Goran era diretto al suo ufficio. Ma suo non lo è stato mai; ha il permesso di lavorarci. Ma è il lavoro che lo chiama, che lo sveglia. È il lavoro a cui deve rispondere.

La vita invece è sua. Quella sì! Ma le molecole, però, appartengono al lavoro, quello che lui non ha mai comprato.

“I numeri, la viltà, il calcolo…” Goran si rivolse all’uomo al suo fianco, in piedi in attesa dell’autobus che li raccoglieva ogni mattina e li spostava in centro città.

La risposta non tardò ad arrivare: “Computerizzare le nostre esistenze rende più facili i guadagni. In un mondo che non ha prezzo i rapporti sociali danno il peso a tutto, la cifra cui tutto si scambia contiene l’algoritmo che stabilisce quanto io possiedo di me e quanto ho ceduto ad altri.”  Poi, l’uomo di fianco a Goran, dopo aver sputato sagace la sentenza, aggiunse. “Le auto sono veloci alla nostra vista. La loro distanza percorsa in unità temporali è un indice formidabile della variazione con cui scambiamo le nostre vite, comprimiamo l’aria nei polmoni, resuscitiamo ogni giorno contrattando la nostra pazienza. Il mondo è semplicemente sferico. Non ci è permesso scivolare.”

Al loro fianco una donna dai capelli folti, tonica col peso poggiato sulle sue gambe, fumava l’ultima sigaretta. Attendeva anche lei il suo autobus. Ma suo non lo è mai stato.

“Nell’era della civiltà abbiamo dato un nome a tutto, anche la pausa ha il suo nome. L’abbiamo chiamata vita! Il lavoro si libera del suo tempo, la notte mangia un altro giorno”. Spense la sigaretta e salirono tutti sul mezzo pubblico. Schiacciati, contorti, appesi come salami.

“Incidente!” Si sentì urlare. Il passante in Via della Giustizia lo urlò così forte che venne sentito da tutti, dentro e fuori dal bus. “Eccolo lì. L’incidente…” Sbuffava annoiato l’autista della linea tranviaria picchiando il pugno sopra il cerchio del volante.

Lo scontro è stato visto, l’impatto un po’ meno. Ma l’acutezza della vista raccoglie solo ciò che il cervello riesce ad immagazzinare, i dettagli vengono annuiti e respirati, i polmoni sono i veri ricettori sensoriali. Ad incontrarsi non è la distrazione, né il caso, è l’energia nella sua manifestazione più meccanica. 

Il pilota deve gestire una folle quantità di combustibile, dinamite pronta ad esplodere sotto l’impulso del pedale. Il mondo ha richiesto equilibrio, avido com’è di suoni concentrati in intervalli compatti di frequenze sonore. L’udito ci dà la vera percezione di come il mondo scalpiti.

“Il sole brucia, la luna riflette, l’uomo riposa”.

Goran usciva dal guscio verde con le porte a soffietto e le decalcomanie appiccicate per tutto l’esterno.

Scendendo imboccò la strada in direzione est.

Goran osservava ogni singolo frammento dell’incidente.

“Nella sua tana il lupo si irrigidisce, la mente si logora…  Un’esplosione di colori, la gioia, il profumo del mattino; l’uomo è mentore di se stesso”.

Goran si misurava ogni giorno con il suo medesimo stesso, la sua forza è la manifestazione del mondo. Quando rientrava di sera a casa, pensava semplicemente a come massimizzare la salute di questo enorme corpo chiamato mondo.

“I pensieri sono delle frecce.” Soleva ripetersi.

Soprattutto durante le notti più calde quando si radunava con il resto della sua banda per scorrere fluidamente tra i canali infiniti della città immensa.

Era solito duellare con i suoi amici nell’ingoiare il maggior numero di cicchetti di Zanzuru, un veleno potentissimo in grado di estirpare ogni pensiero custodito nelle segrete celle della mente e portarlo a galla. In un secondo tempo, il pensiero viene dopato e rinvigorito per poi essere gettato nell’etere ad una velocità pazzesca. Gli astanti presenti e racchiusi in un raggio d’azione tale per cui è possibile condensare tutta la materia solida della realtà, vengono stregati dal suo contenuto. Ma più che il contenuto è l’intenzione che pesa, ma di tutto ciò il mondo ne fa segreto e l’immagine che ci portiamo dietro è ancora stantia.

“La bandella” di Fabio Martini

Devo – e voglio – premettere una cosa. Da editore e da lettore prima di tutto, quando leggo per trovare un buon scritto inedito o quando leggo per distrarmi o passare il tempo, comunque sia, la lettura deve traspondermi. Perché una lettura come si deve, deve essere, intrinseca a prescindere ed estrinseca allo stesso tempo. E qui si parla proprio di tempo e del tempo di parlar del tempo. A volte in maniera profonda, a volte in modo superficiale ma Goran, sempre, non lascia il caso al caso. Goran è curioso ed entra nel dettaglio. È curioso, quando domanda al primo che incontra, quando approfitta del suo amico del cuore (che poi altro non è che l’opposto piatto della bilancia di se stesso) e al batti e ribatti del concetto non fa altro che domandarsi e rispondersi da solo. Ma su cosa? Direte voi. Sulle cose quotidiane. Quelle della vita. Quelle del tempo che passa indissolubilmente e prevarica i tempi stessi delle volontà, che tentano di costruire; ma con tempi loro. Ecco, il tempo, quello palesato tutti i giorni. Cioè Kronos, che non attende Kairos. E Kairos si rammarica. Si percuote le membra, per non saper stare al passo, non riuscendo a completare l’opera. E Goran non fa altro che porsi il dubbio. Saper resistere in questo palco che è la vita. Voglio inoltre pensare che in quelle massime, di cui questo racconto è pieno, in quelle dinamiche da quotidiano viver tra casa e ufficio, tra ufficio e intervalli e aperitivi e scuse per esser sociale, ebbene Goran le provi tutte. L’autore, un po’ come nelle vesti di uno Zarathustra di casa nostra, si barcamena, tra le sue paranoie e i suoi stratagemmi frontali alla vita stessa, ma solo ed esclusivamente per salvarsi dagli eventi repentini e dai luoghi comuni che gli vengono sparati da destra a manca: dalla televisione, dalla mente impavida degli assolutisti delle verità strampalate – che poi magari strampalate effettivamente non sono – e da lui stesso, che si auto inganna. O dal passaparola, tanto per passar parole. Una specie di venditore piazzista kafkiano che ragionando di sé e per sé, in fondo ragiona di altri per gli altri e forse proprio, anche per sé. Un libro di riflessione, dove la scusa del raccontarla, in fondo diventa costrutto per farla leggere. Direi che potrebbe valere il biglietto anche solo leggere le prime trenta pagine. Ma poi, non ho dubbi, si arriva in fondo senza neppure troppa fatica e si resta convinti che forse l’autore, tra il serio e il faceto, deve essere passato, senza che ce ne fossimo accorti mai, anche in mezzo alla nostra quotidianità, riconoscendo noi stessi, tra una parola e l’altra un po’ di quel Goran, senza avere mai saputo d’esserlo.

ALTRE INFORMAZIONI:

Michele Laviola

 

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