Descrizione
Commento al romanzo di Silvana Campese
“Tempo che, come avrete capito in questa storia, non ha alcun significato per uomini dotati di così straordinaria fantasia.” Questa la frase che conclude “La basilica in riva al mare” di Fabio Martini. E tuttavia, come lo stesso titolo suggerisce, il tempo ne è più che protagonista, palcoscenico e sfondo, ritmo e colonna portante. Vi si viaggia, si gioca con lui, lo si attraversa andando indietro e tornando avanti, sin dalle prime pagine.
E più che una ascesa sui suoi gradini, il viaggio è una esplorazione che avviene attraverso un labirinto a piani sfalsati di spazio/tempo/memoria. Di volta in volta caricandosi di tessere di un mosaico in costruzione.
Testo complesso, colto, che presuppone strumenti intellettivi e livelli culturali di un certo spessore, oltre che un buon allenamento e un notevole interesse ed entusiasmo per il genere.
Anche se questo romanzo è in realtà piuttosto sui generis. Si discosta infatti e non poco, da ciò che normalmente sono i romanzi e le produzioni di carattere squisitamente fantastico o comunque specificamente descrittive di esperienze quando non esperimenti di viaggio nel tempo. Dove un meccanismo narrativo spesso utilizzato, è quello di portare un personaggio in un particolare tempo a cui non appartiene per esplorarlo, soprattutto nel futuro, ma anche nel passato, magari per intervenire sì da modificarne gli esiti.
Tutto questo consente di sviluppare trame particolarmente elaborate e avvincenti, con elementi ricorsivi, possibilità di analizzare evoluzioni parallele di un evento e colpi di scena estremi, come la riapparizione di personaggi scomparsi.
Ma il romanzo del Martini nasce da input ed esigenze molto più profonde, di carattere filosofico, esistenziale, da cui la valenza ed il plusvalore di elementi – moltissimi – autobiografici. Si sviluppa poi mirando ad obiettivi ambiziosi e catartici, quasi viaggio di elevazione spirituale attraverso ascese nello spazio e nel tempo dell’anima e della psiche.
Il tema del viaggio nel tempo, grande sogno degli esseri umani e fonte di antichi miti e lontane leggende, negli ultimi secoli è esploso in letteratura dove è quasi sempre di per sé, al di là delle differenze, una vertigine mentale. Anche perché la narrazione nasce da un assunto fantastico o quanto meno, da un presupposto non realistico e risulta quindi particolarmente difficile, per chi scrive, calibrare la forte spinta della sua immaginazione con quello che dovrebbe sempre essere la caratteristica di una buona scrittura: servire da ponte empatico tra chi scrive e chi legge, collegando il pensiero, le emozioni e le sensazioni del primo, reali o immaginate, con quelli del secondo.
Ponte empatico che deve avere, evidentemente, come punto di partenza la fantasia, la capacità e l’ispirazione dell’uno, da cui si genera la creatura destinata ad arrivare all’altro. Ovvero al luogo dove sarà poi possibile accoglierla e farla propria, attraverso la personale immaginazione, interpretazione e rielaborazione. Nell’incipit del romanzo, incontriamo subito uno dei protagonisti, Scussel, che con la valigia accanto alla sedia a rotelle su cui l’inchioda da tempo la drammatica conseguenza di un grave incidente, racconta di sé allo scrittore, anch’egli protagonista e voce narrante, all’epoca ancora bambino.
Il ragazzino ha il privilegio di assistere alla straordinaria partenza dell’amico sessantenne per uno dei suoi viaggi attraverso una immagine in cui ci sia un consanguineo ma non lui stesso. Ci troviamo subito dinanzi a due dei molteplici paradossi che si incontrano durante la lettura del libro: il viaggio attraverso le immagini e l’abbandono della sedia a rotelle che non può viaggiare con lui, mentre nella dimensione spazio/temporale in cui si ritrova, sta in piedi e cammina. Ci inoltriamo quindi da lettori/viaggiatori, insieme al protagonista che narra, nella dimensione fantasmagorica del romanzo dove incontreremo Jean, altro viaggiatore nel tempo e con lui, visiteremo epoche passate con i loro personaggi storici o di fantasia ed i loro luoghi, più o meno ancora esistenti ma in contesti spazio/temporali di antica memoria.
Il romanzo è un’opera complessa e Fabio Martini uno scrittore che, per dirla alla Calvino, dimostra in questa prova così impegnativa, cosa è ciascuno di noi e fino a qual segno: “Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, ove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Così affermava il nostro Italo alla fine delle Lezioni romane.
Infatti, durante la lettura mi resi subito conto che questo romanzo è un labirinto del tempo e della memoria del tempo, un percorso per enigmi, per colpi di scena, un viaggio da parte del lettore che avrebbe potuto essere una vera gimkana mentale, una gran sfacchinata fino a sfiancarlo, con i suoi salti nello spazio, dalla fantasia alla realtà, dal sogno alla veglia ed al reale, se… se la penna sagace ed esperta dello scrittore non lo accompagnasse quasi per mano, pagina dopo pagina mentre il grande talento narrativo bada con sapienza alla tessitura.
Scrittura e tessitura che ottimamente contengono senza reprimerla, la forza prorompente e carismatica dell’autore. Molte le tematiche di fondo, impossibile sintetizzarle senza ridurne la portata. Numerosi anche i coprotagonisti tra cui Genova, la marineria… buona lettura…
Intervista all’autore
Il tuo ultimo romanzo che esce con la Casa Editrice L’Inedito, come germoglia e perché?
Iniziai a scrivere questo romanzo nel Duemiladue e lo portai avanti per buona parte dell’anno successivo. Fu un’esperienza unica. Poi rimase nel cassetto per undici anni nei quali decine di volte venne ripreso, riletto e ricorretto in continuazione. In pratica un lavoro senza mai fine che pure adesso ben guardando avrei ancora da aggiungere o togliere col rischio neppur tanto remoto di renderlo eterno alla mia esistenza. Per questo motivo ho pensato di rimettere definitivamente un punto fermo e proporlo su carta per tutti.
E’ una immersione totale in un mondo fantastico. Per tutta la durata del romanzo alcuni personaggi in uno spazio temporale quasi etereo, scrivono e parlano di sogni, fantasia, cultura e storia. Genova, imperturbabile come sempre, posata lì come uno scoglio sul mare. Il romanzo è composto da tre nuclei narrativi: il primo con una matrice fortemente introspettiva introduce i tre protagonisti sino a tutto il sesto capitolo. Un secondo nucleo centrale molto didascalico nomencla la storia in un susseguirsi di avvenimenti senza un apparente nesso ma onestamente doveroso. Ed infine dalla metà in poi il romanzo si snellisce, si connota e diventa veloce e scorrevole.
I protagonisti del romanzo sono tre: L’uomo sulla sedia a rotelle, il clochard, il narratore. Quando c’è di te in loro e quanto di loro in te.
Tre personaggi si spartiscono il corso degli avvenimenti sovrapponendosi l’un l’altro: un anziano signore erudito e saggio che vive la sua vita su una sedia a rotelle circondato da una moltitudine di libri. Un clochard anch’esso quanto mai improbabile, romantico curioso e colto. Ed uno scrittore che racconta la sua vita, prima di bimbo e poi di contemporaneo agli avvenimenti. Il primo viaggia nelle fotografie dove vi sia un’immagine evocativa legata ai propri intimi affetti e nel caso specifico l’amore per la moglie morta prematuramente in un incidente stradale; quello stesso incidente che avrebbe portato lui sulla sedia a rotelle. Il suo viaggiare in quelle immagini dove lei sia presente, apre la possibilità di estendere il personaggio verso l’oltremodo, verso la cultura e cioè: i libri. Unica soluzione alle domande filosofiche che attraverso l’elaborazione intellettuale, permeano tutto il romanzo quasi a preservarlo da qualunque fattore inquinante che non resti mera condizione dialettica. Il secondo protagonista invece, viaggia nel tempo risvegliandosi sempre sui gradini del sagrato di una identica chiesa, quella di San Siro, tanto da diventare la sua unica e vera casa. Quelli che lui chiama in maniera ascetica: i gradini del tempo. Leit motiv di tutto il romanzo. Infine l’invece probabilissimo narratore, colui il quale lungo il romanzo raccoglie il filo della matassa sino a diventarne il demiurgo e poi: Isabel, Siro, Miriam, il sacrestano e Guglielmo un condottiero. La grande scusa di tutto questo che si chiama Genova. La sua storia di Repubblica marinara che la rende protagonista di un medioevo di guerre crociate dove dai gradini di quella chiesa passò la storia del mediterraneo intero rendendo unico quell’ambiente.
I tre personaggi principali temo siano miei alter ego. L’uomo sulla sedia a rotelle, il clochard, il narratore, completano nel loro insieme il triangolo delle mie emozioni maturate nel mio mezzo secolo di vita. Oggi questo racconto lo sento come se fosse autobiografico. Ma autobiografico nelle aspettative, nelle speranze, nelle accettazioni e nei rimpianti riconoscibili nella casa del primo personaggio e nei libri che ne avvolgono quelle stanze, nella pulizia d’animo e nell’onestà intellettuale di tutto il contesto, e nella straordinaria vita tremebonda del barbone che ha il dono di essere un viaggiatore instancabile. Quindi il macigno storico di questa città della quale forse sono riuscito a coglierne la vera grandezza solo quando è cominciata a mancarmi. Ma anche i rimpianti: in quella nave dei sogni irrealizzati, in quel grande teatro che in qualche modo sta dentro al campanile mozzo e nella maestosità dell’immaginario collettivo che ad entrarvi parrebbe un incubo da lasciare senza fiato; oppure: un commovente sogno. Tanto è vero che quando qualcuno mi domanda che genere di romanzo sia questo “Gradini” di fatto non sappia mai rispondere precisamente e mi limiti a dire pieno di dubbi che forse è onirico.
Il tuo percorso d’Autore… Come e quando ha avuto inizio?
Scrivo da sempre. Da quando avevo diciassette anni e nasco come scrittore di versi. Per anni ho avuto occhi solo per la poesia e tuttora resta la mia casa d’infanzia. Una poesia da cantastorie, dove in pochi versi, un miscuglio tra prosa e poesia, si esprime un fatto o un sentimento o una profonda ruga di tristezza. Per me la poesia resta sempre l’angolo nel quale nascondermi per stare con me. Poi è arrivata la prosa. Prima con racconti brevi di fantasia, poi laboratorio di scrittura e ricerca, quindi due romanzi tra cui questo, e un primissimo in e-book autoprodotto e un terzo in cantiere. E poi la rete. Nel ‘96 sono entrato nei primi spazi internet dedicati alla scrittura dove si imparava a confrontarsi con altri che tentavano anch’essi di farsi leggere. E attraverso la lettura degli altri e da parte di altri, ho capito che la rete era uno spazio straordinario e non l’ho più abbandonata. Oggi curo un gruppo su Fb “L’inedito Letterario” e ho continui scambi di scritti. Un patrimonio quotidiano di piccola letteratura contemporanea.
Fabio, parlaci dei tuoi progetti per il futuro.
Sono al lavoro intorno ad un romanzo molto diverso da quelli che ho scritto. Restano sempre i voli pindarici nella cultura, ma questa volta quasi in bianco e nero. ripercorro il mio passato e gioco con le parti che ognuno di noi ha raccolto nella vita… Non ha ancora un titolo ma uscirà sempre con la casa editrice “L’Inedito”. Una esperienza stupenda. Diversamente, già da tempo stavo lavorando dietro ad alcuni soggetti. Non sono uno scrittore particolarmente prolifico. Ho i miei tempi e in genere cerco di non inflazionarmi.
Siamo giunti al termine del nostro incontro Fabio, un onore e un piacere averti avuto con noi.
Invitiamo i nostri lettori a salire “La Basilica in Riva al Mare” immergendosi in una nuova e fantastica dimensione extratemporale. Certi che non rimarranno delusi.
Il primo capitolo
Stava seduto sulla sedia a rotelle. La valigia era appoggiata al fianco della ruota destra. Io alla sua sinistra, sul bordo di una vecchia panca di legno a due posti dei quali ne occupavo meno di uno, arricciavo i miei pensieri tra un ineluttabile punto interrogativo e una fiducia incondizionata verso il futuro.
Oltre la sua sagoma, v’era una larga e alta finestra a doppio battente dietro la cui vetusta trasparenza di antico vetro, tremolavano riflessi appena comprensibili di un mondo ove la natura era ancora indiscutibilmente padrona del suo destino e della sua primitiva esistenza.
Io a mia volta, protagonista e padrone del mio destino e sicuramente anch’io della mia primitiva esistenza, stavo immobile, inebriato dagli eventi, dolcemente affascinato da quella naturale affabulazione che impregnava come per incanto, l’aria di quella stanza.
Un’eccitazione quasi campale, al caldo di quella giornata estiva, scendeva dalla mia fronte in enormi e misericordiosi grani di sudore e pur non sapendo né immaginando come sarebbe andato a finire quel giorno, già lo intuivo come il più indimenticabile mattino della mia infanzia. Non mi sarei sbagliato. Tant’è, nessuno lo aveva mai visto partire per uno dei suoi misteriosi viaggi ed io, quasi per un gioco del destino, mi ritrovavo lì a salutarlo.
Lui, il mio maestro, neppure parlava. I suoi silenzi avevano la stessa profondità di uno stato d’animo straziato; ma chi aveva imparato a conoscerlo sapeva, che proprio in quei momenti, bisognava tender l’orecchio e pazientare. Eppure, quando si decideva a farlo, già dopo una manciata di parole pareva fiaccarsi dallo sforzo e rinunciarvi. Era troppo evidente ogni volta, quel suo sradicare pietre dal cuore. Radici aggrovigliate le sue, che sembravano un’espiazione, un fio, a salvar l’anima da un’ineluttabile sprofondo. Uguale identico ad una pietra che rotola insomma; un intero incubo dal quale diveniva a volte persino difficile svegliarsi. Così sempre più spesso risolveva il tutto facendo finta di nulla e così come niente, passava l’incanto, un po’ come era venuto.
Parlava di rado il mio maestro. Forse per una desuetudine colma di alchimie segrete appena sottese. Ma forse, anche perché, col passare del tempo, pochi ormai erano coloro che andavano a trovarlo e anche quelle visite, si erano via via diradate di pari passo ai suoi capelli.
Fu proprio in quell’istante che le sue labbra si scostarono e la sua voce potei udirla avvolgere ogni cosa. E Fu così, che tutto ebbe inizio.
Librò nell’aria quel richiamo, alzandosi come fumo e avvolgendo il tutto, spingendosi ovunque: sopra ogni libro come polvere, infilandosi tra molti di quei vecchi titoli Bodoni e planando poi, sui bordi gialli di tutte quelle vecchie pagine disuguali, raccolte dentro austere copertine, in un disordine colmo e denso a riempire quegli scaffali di legno a perdifiato e spersi per la stanza. Pareva quasi, per suo limitrofo esterno, che il tutto avvenisse tanto fuori, quanto dentro me. Quei libri avrebbero da quel giorno accarezzato il mio sognare abbacinato a quel vocìo iscritto, che per tutta la vita avrei inseguito poi, con passione mai doma.
Lui, gran vecchio lupo del mar dello scibile, uomo di una cultura irraggiungibile, sapeva benissimo in quale tempesta si trovasse la mia anima. Io invece stavo immobile nell’attesa di vederlo compiere ciò di cui mi aveva tante volte parlato, e le sue prime parole si mossero all’unisono.
“Le persone come me, costrette alla prigionia dalla loro stessa carne, non desiderano altro che allontanarsi di tanto in tanto dal proprio fardello”. Sempre più insistentemente si perdeva in quel discorso. All’inizio pensavo sognasse. D’altronde chi nei suoi panni, non avrebbe desiderato spingere quelle gambe inferme fuori da quelle sbarre e immaginarsi il mondo da una ben altra traiettoria? Ma stavo per scoprire che le sue non erano fantasie. “Ed è per questo che qui vicino a me ho sempre una valigia pronta”.
Non so come spiegare, ma quell’uomo era riuscito a scavare un buco nel muro della sua esistenza e quando ne sentiva il bisogno, da quella crepa, evadeva. “Potrei essere desiderato o desiderare quindi, e in qualunque istante, dover partire. È qualcosa che ha a che fare con l’amore credo. E non è forse l’amore di due amanti l’avventurarsi ognuno nel mondo dell’altro?
Ah, l’amore, ragazzo mio”. Aggiungeva sempre enfasi. “Ma è meglio che impari queste cose di tuo conto”. Negò poi nell’aria con la mano chissà cosa. E riprese. “Non v’è libro, né maestro che possa dartene la benché minima idea. Sarà il tuo cuore stesso al momento giusto a farlo. A me, per ora, non resta che partire. Perché è come una voce. Come un canto di sirena che sale dal profondo; e può arrivare a qualsiasi ora del giorno o quand’è notte, che magari nel bel mezzo, me ne sto ammattito dalla noia a lustrare il soffitto con gli occhi; oppure una mattina che nulla capita. O un Natale in cui nessuno sa chi sei e il telefono non squilla e l’unica neve che cade è la polvere che ti porti addosso. Può capitare in qualunque istante. Ed un momento dopo già devi partire”. Poi cambiò tono. “Tutto nella rassegnazione, di non vederla invecchiare insieme a me”.
Provai imbarazzo a domandare di chi stesse parlando, ma lui aveva orecchie solo per i suoi ricordi. “Quando sto con lei, io lì cammino e la tengo per mano. In ogni viaggio, in ogni luogo, quali che siano le circostanze, la mia mano si tiene alla sua e le mie gambe, fuori da questi tubi di ferro, non si stancherebbero mai di assecondarla”.
Ero stupefatto dal trasporto emotivo con cui raccontava quello che agli occhi di un estraneo potevano sembrare incubi messi assieme qua e là tra i cocci dei ricordi. Mai come allora mi sentii tanto in vena di credergli e tenevo le dita incrociate sperando che ciò che ascoltavo rispondesse al vero. Volevo ardentemente che fosse vero. Desideravo follemente che tra le verità che gli uomini hanno inseguito per millenni, almeno una di quelle si fosse incarnata nelle parole di quello stanco signore.
Poi rimase in silenzio e guardò nuovamente all’esterno oltre la finestra. Due uccellini saltellavano sopra i rami dell’albero nel giardino. “Come ospiti graditi”. Disse. “Queste foglie adagiate alleviano a volte i crampi della solitudine”.
Poi tornò il silenzio per alcuni secondi e istintivamente mi feci avanti. “Oggi partirà?” Egli con un lieve bisbiglio annuì. Poi chiesi se potevo restare anche dopo la sua partenza. Ed ancora una volta annuì. A quel punto rimasi fermo accontentandomi del nulla. Avrei atteso che gli avvenimenti avessero preso corpo e da quell’istante non proferii più parola alcuna e rimasi immobile in un turbinio di pensieri.
Credevo smarrirmi nel ginepraio delle domande che dentro me si intrecciavano senza alcun permesso. Ero bloccato da un’ingenua deferenza che oggi mi farebbe sorridere, ma sentivo d’essere come sulla soglia di un tempio primitivo le cui viscere celassero segreti tesori che la stupidità umana non aveva saputo cogliere per migliaia di anni. I miei occhi erano tirati. La gola inaridita. Le dita si infastidivano a vicenda. La mia anima se ne stava sulla riva di un mare candido di sogni ad aspettar piover stelle. Lo osservai concentrarsi.
Spostò lo sguardo fuori dalla finestra a raccoglier idee. Perché raccoglieva idee il mio maestro. Idee per far collane e rosari – che quel che aveva da dirmi non era cosa da maneggiar facile – e gli ci vollero minuti interi a riordinare i pensieri. Lunghe e silenziose eternità scandite dall’orologio a parete, ma che puntualmente mi ritrovavano lì.
“Quando ebbi l’incidente che mi costrinse per sempre a questa gabbia, non ero più molto giovane”. Parlava senza mai alzare gli occhi. A volte fissava con lo sguardo un punto imprecisato del pavimento lucido in graniglia. Fu il primo periodo, il peggiore della mia vita. In quell’incidente persi mia moglie e per tanto tempo mi sembrò ancora di vederla camminare in questa casa, indossando sempre lo stesso vestitino estivo. Mai sfiorita. Io invece non ho più un petalo addosso e quando la osservo in queste stanze, un po’ mi vergogno della mia rovina. Ma lei mi guarda sempre sorridente nella sua perenne gioventù. Poi girò nuovamente lo sguardo verso la finestra. Ne percorse il paesaggio del porto e il mare ai bordi della città, appena sotto il cordolo del giardino e sembrava un gabbiano in volo quell’uomo, che ad ali stese, planasse per poi risalire al turbinio del vento. Perché lui narrava proprio come un volo d’uccelli sull’onda del mare, che va e viene nel suo incedere eterno.
“I primi tempi non riuscivo a farmene una ragione. Sentivo d’essere la causa di quella serie di sventure iniziate quel giorno che un’auto ci assalì improvvisamente dalla corsia opposta. Fu un impatto violentissimo e l’ultima volta che vidi mia moglie giaceva sdraiata al mio fianco sul bordo della strada. Non respirava più e il sangue le accarezzava il volto”. Si fermò strozzato e attese alcuni secondi. “Anch’io stavo steso sull’asfalto, ma vivo. Le mie gambe parevano braci e nessuno al mondo le avrebbe più viste correre né camminare. Ma lei era immobile. Alcuni uomini dal muso lungo, le stendevano un telo bianco sul corpo facendosi il segno della croce. Il suo viso, e i suoi occhi color del miele, sparirono così dal mio mondo e ci lasciammo senza esserci nemmeno salutati o raccontati quanto fosse brutto morire. Io rimasi lì, da quel momento solo, per sempre”. Si appartò nuovamente in uno dei suoi silenzi. Poi, per fortuna, riprese il racconto e il mio magone ebbe quel tanto che bastava per non capitolare.
“Dopo mesi di riabilitazione, mi ritrovai a disperarmi su questo attrezzo, con una rabbia, una nostalgia e un’amarezza tale, che solo il tempo, lentamente, mi aiutò a sostenerne il peso. Ma non potevo più lavorare. Prima dell’incidente avevo avuto una falegnameria e dei dipendenti. Una buona attività che ebbi occasione di cedere. E con il sostegno di un vitalizio assicurativo, qualche risparmio e qualcosa lasciatomi in eredità da mia moglie, mi permisi di chiudermi in casa sbattendo la porta al mondo intero.
Ma ogni tempo ha il suo tempo e ogni dolore la sua consolazione e mi ritrovai così a desiderare di cercare le ragioni di quella nuova condizione. Attraverso la lettura e lo studio, tentai un nuovo percorso. Perché doveva pur esserci un motivo, un movente divino o terreno o qualcosa di simile. Da allora non feci altro che leggere libri e studiare avidamente.
Leggere e studiare da quel momento diventarono l’unico motivo della mia vita. Esigevo conoscere il senso di tutto. Non solo di tutto. Di più di quel tutto. Il senso della vita intera e della mia. La più povera e sconsolata esistenza che inquinasse con le lacrime il suolo della terra. E quel capriccio si spinse lontano. Studiai alcune lingue. Imparai greco e latino riempiendomi la casa di insegnanti che passavano con me ore e ore stupendosi della mia costanza. Quasi una fame recondita. Impazzito in quell’onda dentro la quale cercavo i motivi di quello che era accaduto. Sentivo in quel sublimare di febbre che fosse giusto così e che fosse quella, la strada da percorrere. E tutto questo andò avanti per vent’anni.
In quei quattro lustri imparai buona parte di quel che mi ero prefissato di apprendere, ma il desiderio di mantenermi isolato rimaneva, anche se quella solitudine agli occhi di coloro i quali ormai dispensavo dal venirmi ancora ad insegnare, paresse l’anticamera di una miserevole fine. Eppure v’erano due paradossi a farmi sentire meno solo e contemporaneamente rendermi forte e cosciente di aver superato il momento peggiore.
Il primo era un dono che non sapevo di avere neppure prima dell’incidente e che ebbi motivo di affinare col tempo, e cioè, viaggiare nelle immagini. Il secondo fu, che viaggiando attraverso quelle immagini, potevo trovare come tuttora ritrovo, chi fui costretto a lasciare. Diverse volte infatti provai, a viaggiare altri tipi di immagini, che pur se non mi riguardavano erano luoghi che avrei voluto visitare volentieri, come cartoline con grandi città, foreste, nevi perenni o qualche angelo natalizio da abbracciare, ma dovetti rassegnarmi presto che viaggiare in un’immagine dove non vi fosse qualcuno che io amassi o che fosse a me legato in qualcheduno di quei modi di cui l’amor distingue, non m’era concesso.
Ugualmente mi resi conto che io stesso non dovevo essere presente, perché ivi sarei dovuto andare. Ma il fatto di poter viaggiare dove fosse lei, già mi bastava, rassegnandomi con indifferenza al resto ed è per questo quindi, che per una sottigliezza del destino o stranezza della vita, vada io da lei, attraverso le immagini, e con lei parlo e sorrido e lei mi sorride e mi parla di tutto ciò che possano dirsi mai, due persone che si amano. Quasi a cercare ancora la stessa intimità, al di là del tempo e dello spazio, come due adolescenti che di nascosto si cercano dietro a un muro. Ed è per questo che oggi mi sento comunque un uomo felice.
E non è follia la mia ma soltanto felicità. Perché quando torno ad abbracciarla si apre una luce straordinaria e scivoliamo senza preoccuparci, di dove siamo, di dove andremo a finire; come in un sogno lucido di quelli che restano anche dopo il risveglio”.
“Anche per te”. Aggiunse come quasi un anatema. “Arriverà il tempo in cui la tua anima si dannerà per una donna e allora ripenserai alle parole di questo vecchio”.
Ero immobile in quella stanza. Gli occhi sbarrati e probabilmente a bocca aperta. Ma capirete bene come potessi sentirmi. “E quindi con lei rimango un giorno intero, finché riesco a restare sveglio”. Continuava a parlare senza tregua. Io aggiustai probabilmente le gambe su quella panca e appoggiai i palmi sul sedile di fianco a me, sporgendomi in avanti.
“Purtroppo non mi è permesso addormentarmi durante questi viaggi e così vivo con lei quelle poche ore, parlo, e lei mi parla, come adesso stiamo parlando io e te ragazzo mio, e nessuno dei due metterebbe in dubbio che questa sia la sacrosanta realtà. In quelle ore, giusto per dirla tutta, non resta traccia di questa sedia che nella realtà porto con me come un arto aggiunto. Questa lì, non può venire. Ed allora finalmente torno a camminare come una volta. Unico rimasuglio che resta nella memoria. Le ore scorrono in fretta e spesso mi manca il tempo di assaporare fino in fondo quella mia fortuna. Poi chiudo gli occhi e prego il tempo di fermarsi. E quando il tempo scade torno a casa”.
Prima della partenza mi aveva rivolto un cenno con gli occhi e un brusio di sorriso per salutarmi. Mi sentivo intimidito e piccolo. D’altronde la mia vita era un’inezia di fronte alla sua, così aggrovigliata e dolente come una corona di spine. Mi sentivo come se fossi a salutare un amico alla stazione dei treni. Le sue mani ormai descrivevano lievi cenni di commiato roteando l’indice in aria. “Attorno ci vediamo, qua attorno.” Sembrava dire.
Ma attorno dove? Quando neppure sai da che parte comincia il mondo e dove finisce una strada? Sono convinto che un giorno, quando la schiena mi si spezzerà dal peso degli anni e dal davanzale della vita passata guarderò commosso il giocare dei bimbi sulla strada, avrò con me quell’identico sorriso di allora e forse una stessa identica lacrima lì, ad impreziosirmi il cuore. E non posso negarlo, ero spaesato. Commosso e triste allo stesso momento. Realizzai che crescere è come allontanarsi da casa per non farvi più ritorno. E mai come quella volta capii che Scussel, questo era il suo cognome, non se ne stava andando da casa sua, ma con quel suo viaggio straordinario, vi stava tornando.
Ora era immobile davanti allo scrittoio. Lo osservavo attento alla sua sinistra, in una trepida agitazione difficile da spiegarsi, attratto nel contempo da quell’infinito susseguirsi di avvenimenti. Lui invece era assente, a cadenzar respiri. Gli occhi erano chiusi su quel viso regolare e magro. I muscoli immobili e secchi come spolpati da stormi di avvoltoi o pensieri, o chiamateli come vi pare, giravano lì dentro affilando i denti all’idea di sbranarsi una vecchia carcassa.
Che poi, a quell’epoca, avrà avuto non più di sessant’anni, ma io ragazzino, lo vedevo più vecchio che mai. Oggi poi, che sto qui a scrivere a distanza di tanto tempo e più o meno con la stessa sua età di allora, posso dire con provata esperienza che quell’impressione d’estrema vecchiezza fosse solo il conto improbo pagato alle ingiustizie della vita, alla quale però, capii molto dopo, non avrebbe mai, e poi mai più, che smesso di sorridergli.
Pareva dondolarsi impercettibilmente vestito com’era, in maniera impeccabile. Una giacca estiva. Un fresco di lana marrone sopra la camicia bianco avorio. Un gilet in tono. Una sobria cravatta striminzita e lunga e scura, anch’essa marrone dal piccolo nodo fuori moda, portato quasi come l’irrinunciabile vezzo di uno stravagante. Dal taschino della giacca poi, spuntava un fazzoletto identico alla cravatta. Le scarpe lucide. I pantaloni uguali alla giacca. Tutto perfetto. Nulla fuori posto. Come sempre! Neppure un capello sulle spalle dell’abito. Né una mosca. Una pagliuzza o un briciolo di polvere che osasse avvicinarsi.
I capelli, quelli erano grigi come la cenere che a volte si rimescola in addormentati bracieri e talmente corti, che pettinandoli indietro, come lui faceva, si trasformavano in una spazzola di setole ritte e spaiate da sembrare irrigidite da uno spavento improvviso. Due brevi basette quindi completavano il disegno del capo. Sul viso, la profonda e quieta superficialità di due rughe che dagli angoli esterni delle orbite scendevano fino ad accarezzare le labbra come due lacrime fuori posto. Il tutto in uno sguardo dall’impressione vagamente triste di chi vive riavvolto in sé stesso per uscirne solo di tanto in tanto su insistente richiesta del prossimo, piuttosto che per propria necessità.
E chissà quanto sua moglie lo avrebbe trovato affascinante se fosse stata lì o chissà dove lo stesse aspettando, in quel momento, in quale aeroporto lontano, seduta scomodamente su qualche ricordo volato. E immaginavo nel mio immaginario neonato, che proprio in quell’istante lei stesse tendendo l’orecchio alla voce di quell’altoparlante all’annuncio dell’arrivo di quell’aereo privato e speciale.
Mi aveva detto che sarebbe partito alle dodici e trenta in punto e così accadde. Il giorno era chiaro. Il sole entrava pieno di forza in quella stanza colma di libri dove ambedue eravamo sempre più immobili. Io non gli staccavo gli occhi da dosso. Lui a sua volta li teneva socchiusi in un leggero appisolarsi che mai sconfinava oltre. Nessuna turbolenza lo avrebbe disturbato durante il suo straordinario tragitto.
Dopo alcuni minuti di silenzio irreale aprì gli occhi e con lo sguardo rivolto allo scrittoio mise la mano nella borsa che pendeva dal bracciolo destro della sua sedia e ne tolse un piccolo pacchetto bianco chiuso da uno spago. Slegò il nodo. Osservò lo spago per un istante e lo ripose sul piano di legno scuro. Aprì lentamente un lato della busta traendone alcune fotografie. Ne scelse una, la posò sul tavolo diritto davanti a sé e reinserì le altre nella busta che riappoggiò assieme allo spago sul piano della scrivania. Finito quella specie di rito, posò i palmi delle mani sulle gambe quasi sorridendo, mentre nuovamente immobile accarezzava con lo sguardo quell’unica foto in bianco e nero distesa sul piano obliquo dello scrittoio. Dai cenni del viso sembrava sereno e pronto per quella sua incredibile partenza. Ed infine, in quell’incedere irreversibile, scorsi i contorni del suo corpo diventare lentamente meno evidenti e poi sbiadire sino a lasciare la sedia vuota.
Sorrisi appena, sentendo una forte emozione percorrermi la pelle. Sinceramente non v’era molto da dire. Avevo vissuto l’impossibile, l’avevo toccato con mano eppure, mi sentivo profondamente ricco. Il chiarore del sole entrava dalla finestra illuminando ogni punto di quella stanza avvolta dai libri. I muri scottavano. E così la mia fronte. Fuori dalla finestra l’albero scrostato dai fumi di scappamento pareva verdeggiare in un’eterna giovinezza. Quindi mi alzai, quasi a non disturbare, presi le mie cose e uscii dalla stanza. Senza far rumore e percorsi il lungo corridoio che mi divideva dalla porta d’ingresso. La raggiunsi e l’aprii.
Una leggera brezza calda mi avvolse mentre scendevo il gradino di marmo sul selciato esterno. Poi fu come un incantesimo. Mentre mi chiudevo l’uscio alle spalle sentii distintamente giungere dal fondo del corridoio le voci di due persone che ridevano. Chiusi allora il portone, accompagnando lo scrocco della serratura, e respirai profondamente.
Ora all’aperto, sotto il porticato che incorniciava il giardino, nonostante tutti i possibili rumori della città, laggiù in fondo, udivo distintamente il rumore lontano della risacca del mare.
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