Descrizione
“La bandella” di Silvana Campese
Sin dai primi racconti della Mazzeo, sentii di essere alla presenza di una galoppante esuberanza, di una grande potenzialità espressiva, emozionale e stilistica. Grazia Mazzeo è un esempio di passione assoluta per la scrittura; un fiume in piena, per poi giungere sfiancata, ma fremente, al pathos finale. Grazia riesce a vincere su quegli spauracchi al tempo stesso sale, concime, sprone ineguagliabile – che sono sempre in agguato in chi ha talento letterario: senso di frustrazione per la propria inadeguatezza, per la scoperta improvvisa di una narrazione insufficiente. Come? Con la sua cruda sincerità, libera uscita per pensieri e parole che altri, quando scrivono faticano a svincolare perché faticano ad affrancarsi essi stessi dall’autocensura. Lei fa il contrario e la sua scrittura non è solo di buon livello contenutistico ma intreccia e alterna, con talento e disinvoltura – a tratti spiazzante – la lingua italiana con le forme dialettali, il linguaggio del cuore e quello della mente, con i loro ritmi e i loro vezzi che donano ai racconti una vivacità gradevole, una leggerezza tenerissima, pur nella gravità o nella tristezza dei contenuti, quando sono tali. Infatti la dominante mi sembra essere piuttosto la forza dell’amore in molte delle sue diverse espressioni e forme, la bellezza della vita, persino tra le oscenità della guerra, la semplicità di anime buone, nonostante tutto il dolore patito, per una ragione o per l’altra. Nonostante l’odio, la violenza, la crudeltà della guerra e le bizzarrie di quello che il “destino” riserva, soprattutto ai più semplici di spirito… Dalla penna robusta e inconfondibile di Grazia vengono fuori situazioni e trame diverse, non necessariamente sensate e plausibili: ora più o meno verosimili, ora molto realistiche, persino violente e/o colme di azzardi erotici. Storie ambientate in vari periodi, personaggi appartenenti anche ad epoche lontane, molto diverse da quella attuale, eppure, come la stessa autrice dichiara, un filo sottile, invisibile le attraversa: l’imprevisto, l’inaspettato, ciò che all’improvviso compare e stravolge la vita o ne modifica senso e direzione. Grazia sa approfittare alla grande dell’impareggiabile privilegio concesso a chi narra: come l’enigma di Grazia bambina al risveglio nel Santuario della Madonna del Pozzo. Protagoniste, oltre che alcuni uomini, soprattutto le varie figure di donna ed in particolare le nonne. Ma anche la dimensione temporale, splendidamente realizzata con talento storiografico, quella geografica con altrettanto talento cinematografico. Lo stile è inconfondibile, un baluardo a difesa della dispersione cui potrebbero portarla la fantasia, l’immaginazione o la riproposizione – a volte un po’ ossessiva – dei suoi più intimi flash back. Geoge Sand diceva: “ Il marchio della creatività letteraria è una violenta, indistruttibile ossessione”. Donato Di Poce, poeta contemporaneo, critico d’Arte e famoso scrittore di aforismi, afferma che “Il vero CreAttivo non è chi inventa qualcosa ma chi riesce a contagiarti l’Anima”. La nostra autrice forse c’è riuscita… almeno con me.
Stralcio del primo racconto: LA PROMESSA
Due mesi, due miserabili mesi soltanto! Manco il tempo di piangerla che già il rimpiazzo era pronto, come se suo padre se lo fosse tenuto nascosto dentro al cassetto del comò, tra le lenzuola di mamma.
E che diavolo, che razza di scherzo era quello. Domani alle dieci mi sposo! Così, di punto in bianco se n’era uscito il padre mentre Amalia impastava, come meglio potevano le sue braccia da quindicenne, il pane per tre giorni. Senza parole l’aveva lasciata.
Comportati come si deve, prendi i vestiti buoni e prepara i piccoli in tempo e tu acconciati bene i capelli coi ferretti. Da domani si cambia registro e non ti scordare che… – e lì fece un cenno con l’indice rivolto verso l’alto – mamma la devi chiamare a Luisella, diccelo pure ai piccoli, mi raccomando”.
Era rimasta con le mani che serravano forte la pasta in mezzo alle dita e con quel groppo alla gola che le aveva impedito di dire manco una mezza parola. E menomale. Le parole, le uniche che sarebbero uscite dalla sua bocca, le avrebbero fatto riempire la faccia di sberle.
“Bastardo schifoso!” Ecco quello avrebbe voluto gridargli. Ma stette zitta mordendosi a sangue la lingua. Avrebbe voluto gettargli in faccia la pasta di pane. Ma stette ferma mentre le dita affondavano dentro con rabbia.
“Mamma. Chiamare mamma un’altra donna? Mai sia!”
Solo a pensarla un’altra donna in giro per casa, le rivoltava lo stomaco.
“A Luisella. Mamma la devi chiamare!” “Scrofa piuttosto! Altro che mamma.”
Un’altra donna a casa sua. Ma non scherziamo.
Altre mani a toccare le cose della sua mamma. Un’altra voce a riecheggiare nelle stanze. Ma come si poteva pensare che fosse una cosa da sopportare. Magari pure con il sorriso sulla bocca.
Non era una cosa possibile, che un’altra se ne andasse a dormire nello stesso letto dove sua madre se n’era andata tra patimenti atroci. Stringendo il polso proprio a lei e il lenzuolo tra i denti perché nessuno capisse che in quel momento patteggiava con Dio o col diavolo affinché mettesse fine a quel dolore.
Mannaggia alla vita. Mannaggia e mannaggia alla morte e mannaggia anche a suo padre, che senza femmine non sapeva stare.
“Alle dieci mi sposo.”
Che ore erano adesso? Un raggio di luna cadeva giusto sulla sponda del letto. Arrivava proprio lì come fosse una lama che se ne stava sospesa proprio sulla sua testa, come se all’improvviso quando meno se lo aspettava le poteva cascare addosso tra capo e collo.
E magari pensava: “Mi risparmierei quest’altro dolore!”
Era una notte chiara e non ebbe bisogno di accendere il lume per guardare la sveglia che teneva sul comodino.
Allungò la mano e la prese rischiando di farla cadere.
Le tre e mezza e il sonno era diventato un tutt’uno col groppo dentro la gola. Pensava che le lacrime lo avrebbero sciolto quel dolore e una goccia alla volta se ne sarebbe uscito dagli occhi che stanchi si sarebbero meritati un po’ di ristoro. Ma niente.
Era tutto lì. E hai voglia a piangere. Anzi, al dolore s’aggiungeva pure la rabbia per essere stata messa da parte riguardo ad una decisione che toccava anche lei.
Lui si sposava e va bene, la decisione toccava a lui, ma quella di un’altra mamma? Toccava a lei decidere. A lei e ai suoi fratelli.
“No!” Era quello che avrebbe risposto se si fosse degnato di chiederlo.
Una mamma ce l’abbiamo già e quella, qui non ci mette piede.
Luisella, mannaggia a lei e chi l‘ha creata.
Se lo doveva immaginare che una così a suo padre se lo sarebbe mangiato in un solo boccone.
Era venuta un giorno che la mamma era troppo malata per alzarsi dal letto e da allora non se ne era più andata. Aiuto qua, aiuto là e come una mosca sul miele, a casa sua era rimasta incollata.
Ha visto bene! Dalla campagna al paese! Luisella.
Prima di quel giorno non sapeva manco che esistesse quella cugina di mamma. Mai prima d’allora s’era degnata di fare una visita. Quasi quasi la mamma le fosse antipatica.
E mo’ guardala lì, la sciagurata, tutta moine e gentilezze verso suo padre. Tutt’affettuosa e attaccosa come una mignatta.
Amalia proprio non si capacitava. Era giovane, ma non tonta e da sola capiva quanto calcolo vi fosse dietro quel matrimonio.
Luisella non era né vedova, né vecchia, andava di sicuro per i venti, mentre suo padre era un uomo maturo e vent’anni sicuro ce li aveva più di lei. Si pigliava un uomo già usato e per di più padre di ben quattro figli. Era chiaro che sotto una magagna ci doveva stare per forza.
Un matrimonio di convenienza. Da zappaterra a signora di paese e proprietaria di masseria. Altro che cavoli.
A Luisella brillavano gli occhi di gioia solo a pensarlo per quel cambiamento così radicale.
Si sistemava per sempre, alla faccia del fidanzato che l’aveva lasciata.
Questa cosa qui, Amalia, l’aveva saputa al forno mentre aspettava che cuocessero le pagnotte. Parlavano sottovoce Chiarina e Rafialuccia per non farla sentire. Senza sapere però che lei, l’orecchio, ce l’aveva fino fino e poteva ascoltare persino i bisbigli da lì, alla piazza.
Dicevano che con quello ne aveva fatte di tutti i colori, persino le cose più sconce.
Lui se ne era andato in Svizzera a lavorare in miniera, ma prima di andare, aveva raccontato peste e corna di Luisella a chicchessia. E Amalia ci credeva. Oh sì che ci credeva.
Luisella era una sfrontata senza pudore. Non l’avesse vista lei stessa di primo mattino uscirsene scarmigliata dalla stanza del padre, ci avrebbe messo un po’ di dubbio. Ma di dubbi in questo caso non ce ne stavano proprio.
Era una zoccola punto e basta e di zoccole e sorci in quella casa ce ne stavano già troppi.
Da quando la mamma era morta, Amalia sentendosi sola le parlava continuamente. Si rivolgeva a lei come le aveva detto l’arciprete: “Mammà sta in cielo, ti guarda di lassù e ti protegge. È l’angioletto tuo e non t’abbandona”.
Non aveva detto bugie don Salvatore, perché la mamma le rispondeva, la sentiva lei sola, ma questo era un’altra faccenda. La soccorreva nei momenti difficili come fosse davvero ancora viva.
Quando lei la piangeva disperata, sentiva la sua mano calda e liscia posarsi sulla sua testa e accarezzarle i capelli e subito l’animo suo e le lacrime si quietavano come avesse messo un ciucciotto in bocca ad un bambino. Non se lo sapeva spiegare, ma era così.
Come pure non si spiegava altre cose. Del fatto per esempio che, quando dimenticava di caricare la sveglia per alzarsi a fare l’impasto del pane, si sentisse nell’orecchio: “Amà, arruvegl’t ya bella mia!” E una carezza sul viso. Oppure della volta che il padre l’aveva mandata a pigliare nell’oliveto l’erba da dare ai conigli. Che ‘scanto, non ce ne stava manco un filo. Me ne dirà di cotte e di crude e che non sono buona a far niente pensava, mentre versava come una fontana tutte le lacrime di cui disponeva quel giorno.
Era così esausta dal piangere che sotto quell’ulivo si era messa a dormire. Un’oretta di sonno che a lei era sembrato fosse un giorno intero e sotto quell’albero stesso era comparsa così tanta erba che avrebbe potuto sfamare i conigli per un mese intero.
Oppure di quando s’era imbizzarrito senza motivo Ciccillo il cavallo nero l’aveva buttata giù dalla sella e con le zampe all’aria stava per metterla sotto gli zoccoli. Sarebbe morta di sicuro se non avesse invocato la mamma. Chi se non sua madre, l’angelo protettore, aveva saputo calmare quella bestia che all’improvviso, così come s’era infuriata si era quietata.
La mamma era sempre con lei, in quella casa, tra quelle mura, nelle cose che aveva toccato e usato per tanti anni.
Anche per questo Amalia si sentiva in dovere, in obbligo quasi di far da custode e difendere tutto quel patrimonio di gesti, tradizioni e ricordi che sua madre le aveva lasciato; no, non poteva permettere che altre usanze e modi di fare di un’altra donna li spodestassero contaminandoli e dissipandoli così a buon mercato.
E poi Luisella non le piaceva per niente e aveva cercato di farglielo capire in tutti i modi. Che si fosse accattivata la simpatia dei suo fratellini era un’altra cosa e non c’entrava nulla, quelli non capivano ancora niente come tutti i bambini. Diceva il nonno, pace all’anima sua, chi mi battezza è compare, due moine, un bacio, un abbraccio e i piccirilli avrebbero chiamato mamma pure la gatta. Per forza, non avevano cognizione della grave catastrofe che si sarebbe abbattuta quel giorno sulle loro povere vite.
Le quattro. E ancora il sonno non si decideva a portarle un po’di conforto e nemmeno la mamma si faceva sentire.
Mancava poco alle sei e doveva alzarsi. Il padre aveva deciso che la casa doveva splendere tutta e a nessuno doveva venire in mente di dire che Francesco le sue nozze le faceva da pezzente.
Un pranzo coi fiocchi doveva offrire ai parenti, compari e compagnia bella. Addirittura la sera si sarebbe ballato. Amalia aveva sentito che aveva chiamato Donato con la fisarmonica e Bastiano col violino. Grande festa! Mannaggia a lui e mannaggia a Luisella!
E se si fosse data malata? Era capace si rimandasse tutto? Malata, malata, però. Le era venuto così quel pensiero e l’aveva afferrato come si afferra un secchio e lo si getta nel pozzo delle speranze perdute.
Che doveva dire di avere? Certo, non poteva lamentare un’infreddatura a maggio, chi mai le avrebbe creduto. Mal di pancia, mal di testa o magari doveva far credere che si fosse dissanguata come il mese prima? Macché andava a pensare, suo padre l’avrebbe affidata alla mano santa della sua quasi moglie, licenziando tutto con un: “Sono cose di femmine queste.”
Mal di testa e affascinatura, ecco la soluzione.
Di solito tutti invidiavano il fatto che avesse una figlia così bellina e l’avevano guardata senza dirle benedica pigliandola d’occhio. E così decise. Si gettò giù dal letto e non prima di aver dato uno sguardo al lettino in cui Nelda, Rocco e Alfonso, con la bocca aperta avvinghiati uno all’altro se la dormivano della grossa, uscì dalla stanza per andare a lamentarsi dal padre.
Non bussò. Aprì la porta piano piano. L’intenzione era quella di non farlo spaventare e svegliarlo con un filo di voce, come un’ammalata appunto. Non ci fu bisogno di arrivare sino al letto per vedere che là dentro c’era stata una rivoluzione.
La stanza illuminata da una pallida aurora non le restituì alcun ricordo di quella che era stata la stanza della sua mamma.
L’intera mobilia era stata cambiata. Un enorme armadio troneggiava tronfio e pretenzioso con i suoi due specchi in cui lei passando evitò di guardarsi.
Il comò con tanti ninnoli, un orologio nella campana di vetro, Sant’Antonio col giglio, la Madonna con le spade nel cuore.
E le cose di sua madre?
Dove stavano, dove le avevano gettate?
E quando lo avevano fatto, di notte?
Tutto, tutto quanto cambiato, persino il quadro appeso a capo del letto: non era più la sacra famiglia che a lei piaceva tanto, ma una Madonna con un bambino.
Era bello anche questo, ma non era la stessa cosa e poi, oh Signore, s’era messa a sindacare sulla bellezza del quadro e a rimirare la mobilia quando quello che avrebbe dovuto notare era una cosa ben più grave! Dentro al letto non ci stava soltanto suo padre.
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