Descrizione
“La bandella” di Fabio Martini
Lavoro colto, scritto con grande cura e perizia. L’odore della muffa appartiene ad un genere letterario che bisogna amare per poterne veramente apprezzare tutti i preziosi e labirintici meandri. Uno per tutti il tipo di descrizioni in cui spesso si esprime l’autrice: della Roma dei secoli andati, di quella contemporanea, di ambienti e contesti, esterni ed interni, di abitudini e comportamenti diversificati in modo anche stridente tra classi sociali. Si tratta di un’opera di spessore, di notevole ambizione e di ottima caratura, realizzata con evidente passione e con approccio ed impegno storico di grande rilievo. Vi si riscontra, capitolo dopo capitolo, la capacità dell’autrice di utilizzare lo sguardo documentaristico per aprire percorsi di narrazione più o meno romanzati e/o del tutto immaginari. Prova di grande onestà intellettuale e rispetto del lettore che, nel percorrere il viaggio spazio/temporale con Lidia e Riccardo, approfondisce conoscenza ed arricchisce il proprio patrimonio di dati e nozioni che, come piccole e grandi gemme, si vanno ad incastonare nel puzzle proposto dalla Jonescu. Il libro ha una valenza ed un colore speciali in atmosfere ed eventi di carattere misterioso, esoterico, comunque inquietante. Sicché si rivela anche un libro di suspense perché crea tensione evolutiva nel lettore, lo lascia a tratti interrotti e capitoli chiusi, con il senso di relativa inquietudine ed indeterminatezza che lo spinge immediatamente a porsi delle domande. Ho scritto relativa perché in realtà c’è sempre lungo il percorso l’indizio che suggerisce, che lo gratifica investendolo dell’accattivante ruolo investigativo insieme a Lidia ed al suo compagno e quindi intrigato ed ansioso di scoprire se quello che sta per accadere è ciò che ha già intuito e che confermi la sua sagacia. Così chi scrive incolla al testo anche il lettore meno coinvolto ed interessato agli aspetti più strettamente e sostanzialmente storici e biografici. Già, perché oltre che di eventi documentati e persino noti riguardo ai secoli presi in considerazione, moltissime sono le narrazioni di episodi e bizzarrie di personaggi realmente esistiti, più o meno conosciuti e riportati nei testi di storia. Sapiente miscela di una penna potente e sicura.
Invito alla lettura: il primo capitolo
Roma 1970. Il cortile era grandissimo, composto da un ampio e alto androne delimitato all’ingresso da un grosso cancello di ferro lavorato a lance.
Sulla parete sinistra, accanto a una colonna con busto acefalo d’epoca imperiale, c’era una porticina che portava direttamente nei sotterranei di quel pezzo di Roma antica dove insieme ai topi si potevano trovare i più svariati tesori d’arte.
Superato l’androne, ci si trovava in un largo spazio trasformato in giardino, con i sarcofaghi romani nei quali erano state piantate delle ortensie che, per essere state ripetutamente annaffiate con il solfato di rame, avevano assunto un colore blu tanto intenso da sembrare innaturale.
Sullo sfondo una fontana a parete alta sei o sette metri con rappresentata la nascita di Venere di scuola Berniniana: Venere era adagiata su una conchiglia sorretta da due mostruose cariatidi. La cancellata che delimitava la grande vasca muschiata era in stato di totale deterioramento e l’acqua stagnante emanava un odore talmente nauseabondo che faceva pensare a qualche cosa di morto.
Sulla parete destra della fontana c’era un piccolo arco che apriva un passaggio di circa un metro pavimentato con una lastra di marmo che, a causa dell’umidità costante, era sdrucciolevole e nei giorni più freddi addirittura ghiacciata: per non scivolare bisognava reggersi con una mano al muro e con l’altra alla ringhiera.
Da questo passaggio si arrivava su un piccolo ballatoio e da qui a un portoncino dietro al quale salivano delle ripidissime scale che portavano dentro la casa cinquecentesca, probabilmente mai più restaurata dopo la collocazione della fontana.
Parlando di una casa del ’500 si pensa subito a quei sontuosi e bellissimi appartamenti rinascimentali con ori e stucchi o meglio affreschi e grottesche: questa non era di quel tipo anche se il contesto esterno lo faceva pensare. Aveva il soffitto a cassettoni senza fregi di alcun tipo, anzi era anche difficile trovarne uno uguale all’altro. Forse nel ’700 o ai primi dell’800 era stata pavimentata con mattonelle rosse esagonali tipiche di tante vecchie case romane, affascinanti ma destinate a creparsi.
Nell’interno c’era, ancora, la cucina a legna, formata da una grande cassa in muratura con gli sportellini sul frontale, per la legna e in seguito per il carbone, e un tempo da un piano con i fornelli di cerchi concentrici di ferro, sui quali Lidia ricordava la nonna fare stupende crostate. Il piano in seguito era stato ricoperto da una più moderna macchina a gas, ma la cosa più eclatante era l’enorme cappa che sovrastava tutto questo armamentario, ed essendo questo ambiente piuttosto angusto, l’effetto era monumentale.
Sulla sinistra c’era un lavabo di pietra, composto da un’unica profonda vasca e un orifizio al centro del quale era stato sistemato un rubinetto; alla destra invece, nello stretto spazio tra il muro e la cucina, due alti gradini portavano a una porta di legno fatta di assi dietro alla quale, salendo altri cinque o sei gradini, si arrivava nell’immensa soffitta che copriva tutta la casa, sotto il tetto con le travi a nudo. Se ci stavi in piedi dovevi tenere la testa un po’ reclinata e intanto ti trovavi a sperare che il pavimento non ti cedesse sotto i piedi. Lidia lo ricordava come “il luogo proibito”.
Oramai la casa era completamente vuota.
Lidia aprì il cancelletto che si trovava a fianco del grande cancello, messo apposta per evitare di muovere quel gigante pesantissimo e pieno di ruggine sui cardini; entrò nel cortile e subito fu ammaliata, come ogni volta che tentava di tornare li, da un profondo senso di angoscia.
Voleva comunque andare avanti ed entrare dentro il suo passato, ma questo l’atterriva, cercò di vincere quella che riteneva essere un’assurda paura.
Quando si trovò nello spazio aperto, lasciato alle spalle l’androne, ebbe la sensazione che questo si richiudesse precludendole ogni via di fuga.
Si avvicinò alla fontana e accarezzò il bordo ruvido e vischioso della ringhiera quasi volesse farsela complice, per un breve attimo si sentì protetta ma durò poco quella sensazione.
– Ora devo andare avanti – si disse – se supero l’archetto ce l’ho fatta.
Memore degli scivoloni si resse al muro e si trovò davanti al portoncino sempre aperto con all’interno le scale buie dai gradini alti e il corrimano di ferro, storto da secoli di mani appoggiate.
Guardandole bene sembrava che non finissero mai e un senso di disagio le prese la bocca dello stomaco, ebbe la tentazione di fuggire – Se adesso corro e torno indietro, appena fuori starò meglio – pensò alla sicurezza dei rumori, alle tranquillizzanti facce della gente nella realtà. Ma realizzò anche che il dubbio le sarebbe sempre rimasto e lei voleva vedere e capire il perché di quel disagio. Mentre era presa dai quei pensieri, inconsciamente evitava di guardare il portoncino, come se lì dietro ci fosse la porta di qualche mistero.
All’improvviso accadde e fu un lampo, ma a Lidia sembrò eterno: una figura d’uomo, del quale poteva intravedere soltanto il volto semicoperto da un mantello marrone che tutto lo avvolgeva, scendeva, o forse sarebbe meglio dire si precipitava, giù dalle scale e quasi la urtò. Passò l’archetto e lei atterrita guardò in su pensando di vedere l’inseguitore, ma non c’era nessuno: né presenze, né rumori, niente. Incurante delle lastre viscide corse verso il cancello sperando di raggiungere l’uomo che l’aveva quasi investita, ma soprattutto pensava a uscire da lì.
Nel cortile non c’era nessuno, il cancelletto era rimasto chiuso come lo aveva lasciato, fece scattare il pulsante elettrico e si sentì al sicuro soltanto quando si trovò nel vicolo e il rombo di una vespa, guidata da un ragazzetto, non la prese in pieno: era tornata alla realtà, si appoggiò al muro e finalmente respirò.
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