Descrizione
Ringraziamenti
Un ringraziamento speciale ad Alberto Baroni per la ricerca degli autori e per la cura e la selezione delle composizioni poetiche di tutta la sezione italiana. Un ringraziamento speciale al prof. Jacopo Rubini, per la ricerca degli autori e per la cura e la selezione delle composizioni poetiche di tutta la sezione latina e delle traduzioni a fronte in italiano, nonché dell’introduzione all’opera. Un ultimo ringraziamento, a tutti gli autori che hanno permesso la produzione e pubblicazione di questa opera.
Autori presenti nel volume
HAIKU IN ITALIANO: KIOKO BENGALA, VITTORIA GANDOLFI, ALBERTO BARONI, MARIA BONARIA CORONA, MARGHERITA PETRICCIONE, RAFFAELE SABA, ANGIOLA INGLESE, ROSA MARIA DI SALVATORE, MARTA SANSAVINI, DENNYS CAMBARAU, MAURO BATTINI, FRANCESCA LA FROSCIA, FILIPPO MINACAPILLI, SILVIA LIVI, CONCETTA RALLO, RAFFAELA DE NICOLA, CIRO FERRARO, CORRADO AIELLO, PATRIZIA CENCI, ROSANGELA BRIZZOLARA, FRANCESCA BELPANE E LETIZIA SASSI.
HAICUA LATINA: JACOPO RUBINI, MAURO PISINI, GIOVANNI MARIA TOSI E FRANCESCO MIRABILE.
Prefazione Fabio Martini
Sinceramente, non avrei mai pensato che un lavoro antologico di poesia giapponese di autori italiani contemporanei, ci avrebbe coinvolto così tanto e per così tanto tempo. Quando, come Editrice L’Inedito, prendemmo la decisione insieme ad Alberto Baroni – Responsabile del gruppo Facebook de L’inedito Letterario – di iniziare la ricerca dei vari haijin che avrebbero potuto partecipare, ci trovammo subito coinvolti a mille. Divenne un tutt’uno leggere e scegliere quei componimenti che come ci eravamo detti avrebbero dovuto rispettare le caratteristiche dell’haiku tradizionale: il riferimento stagionale, il kireji, il classico 5/7/5 – o solo ortografico o solo metrico – con la volontà di definire chiara la regola, evitando l’abitudine, presente negli ultimi anni tra gli haijin occidentali, di aggiungere, modellare, alleggerire a volte – anche per idiosincrasia alle regole ferree – le evidenti scelte strutturali dell’haiku tradizionale che sceglie, proprio in quella costrizione estrema, di far emergere nella difficoltà, quel pathos che diversamente scemerebbe in un languire facile di soluzioni alternative e dispersive. Accettare tutto, per la nostra Casa Editrice, avrebbe potuto far sembrare superficiali le scelte editoriali dell’opera tutta. Abbiamo preferito quindi stare sul pezzo di un percorso ben più faticoso e severo, emerso ancor più nella cernita finale, quella che avrebbe definito la fotografia empatica che il componimento doveva esprimere. In questo caso, lo ammettiamo, la selezione ha accettato immagini a volte non proprio somme, pur rendendoci, noi, conto, che non si sarebbe potuto avere tutto e tanto, in un così breve tempo. Non dimentichiamo che l’anima dell’Inedito impone di concedere lasciapassare, a larga maglia, per autori autodidatti, spontanei e appassionati, tra i quali tentare di trovare nuove penne, in tutti i comparti della scrittura; ma in questo caso, data la caratteristica di quest’arte tanto alta, ci siamo imposti di invitare figure conosciute e presenti nella rete, anche distanti dall’Inedito, di cui la maggioranza, bisogna ammetterlo, ha aderito con piacere, partecipazione e simpatia. Alla fine ventuno haijin hanno potuto dare spazio al grosso dell’opera, corredato per circa trenta pagine finali anche da quattro poeti latini. In questo caso, la proposta di Jacopo Rubini, professore all’Università Pontificia Salesiana di Roma presso la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche, brillante studioso e appassionato di lettere classiche, ha fatto sì che si correlasse, insieme a tre suoi compagni di viaggio, la creazione di uno spazio di evidente unicità, ad un tipo di opera che da tempo non veniva presentata su carta, in formula di antologia di autori contemporanei viventi. Il sottoscritto infine, quasi baccelliere di un impegno che ha coinvolto ore e ore dietro le quinte, si è occupato della geometria dell’opera, delle immagini e del suo miglior confezionamento. Abbiamo cercato di unire qualità, robustezza e coerenza in un lavoro certosino al mondo dell’haiku, restandogli fedeli per quanto ci è stato possibile… Buona lettura a tutti.
“Introduzione formale” di Jacopo Rubini
Dare una definizione al contempo semplice e completa di cosa sia uno haiku è impresa senza ombra di dubbio ardua e spinosa e che, senz’altro, si presta quasi in ogni caso alle critiche degli esperti del settore.
Pur tuttavia, è stato deciso, di concerto con l’editore e i curatori di questa antologia di poesia giapponese in lingua italiana, di fornire, in apertura al testo, una breve ma, per quanto ragionevolmente possibile, efficace spiegazione di quelli, che sono gli elementi costitutivi di uno haiku, sebbene in questo florilegio siano presenti anche altre tipologie di componimenti di tradizione giapponese, come ad esempio il tanka e lo haibun.
Le cause di questa decisione risiedono nella volontà di rendere disponibile anche al lettore, che non sia pratico di poesia giapponese, gli strumenti interpretativi minimi per poter comprendere e soprattutto godere della bellezza di questa antica e affascinante forma di poesia orientale, così lontana dalla nostra cultura sia dal punto di vista geografico, che storico e culturale.
Questa breve introduzione si concentrerà dunque sulla sola costituzione formale dello haiku, lasciando da parte – e riservandola ad altre e più congrue sedi – le questioni storiche del genere, oltre a quelle del suo svolgimento contenutistico interno.
IL METRO. E’ essenziale – oltre che decisamente profittevole dal punto di vista metodologico ed espositivo – partire dall’elemento formale per antonomasia tipico della poesia haiku e che di questa costituisce senza alcun dubbio la caratteristica universalmente più nota: il metro. Tralasciando, infatti, tutte le questioni storiche e letterarie (peraltro estremamente complesse e delicate) che riguardano tale tematica, si può affermare senza timore che, nel corso della sua storia secolare, lo haiku tradizionale si è cristallizzato in una forma metrica corrispondente alla estensione di 17 sillabe (più precisamente on o morae), in cui vanno ad esaurirsi i contenuti del singolo componimento.
Sebbene lo haiku sia originariamente scritto su una sola linea, le 17 sillabe che lo compongono tendono ad essere percepite, per meccanismi prosodici interni alla lingua giapponese, come divise in tre unità dell’estensione, rispettivamente, di 5, 7 e 5 sillabe: forma, peraltro, che contraddistingue anche la prima “strofa” del tanka, completata da una seconda di due versi da 7 sillabe ciascuno.
Tale scansione è giunta poi in occidente, confermandosi nella forma universalmente conosciuta dello haiku di 17 sillabe, suddiviso, appunto, in tre versi da 5, 7 e 5 sillabe.
IL RIFERIMENTO STAGIONALE. Secondo elemento costitutivo dello haiku tradizionale è quello della presenza, all’interno dei tre versi, di un riferimento stagionale, ciò che, in giapponese, viene indicato con il termine di kigo.
Con tale vocabolo nipponico, ci si riferisce a un singolo termine o ad una espressione composita specifica, che identifichi univocamente una stagione, in genere quella in cui lo haiku è stato scritto, o in cui si situano le immagini rappresentate.
Sarebbe in questa sede fin troppo lungo soffermarsi sulle vicende storiche e culturali, che hanno portato allo stabilirsi di una tale convenzione nel contesto della poesia haiku: ma il kigo costituisce senza dubbio uno dei caratteri fondamentali di questa forma di versificazione orientale. Sua funzione specifica non è solo quella di posizionare le immagini dello haiku in un contesto naturale concreto e materiale (due aggettivi, questi, che si possono considerare propri della poetica haiku), ma anche quella – forse ancor più determinante – di situare i contenuti dei versi in una specifica atmosfera emotiva, per cui a ogni kigo – e, conseguentemente, alla rispettiva stagione – corrisponderanno determinati stati d’animo, cristallizzati e canonizzati dalla tradizione culturale e letteraria come specifici di quella determinata stagione e di quel determinato kigo.
Questi elementi saranno utili al lettore, per riuscire a inquadrare lo haiku in lettura nella corretta cornice emotiva, funzionale all’economia complessiva dei versi.
I kigo esistenti nella poesia haiku sono migliaia ed estremamente particolareggiati. Proprio per questo motivo, essi sono rigorosamente ordinati e categorizzati all’interno di puntuali almanacchi giapponesi di kigo, che prendono il nome di saijiki.
Sarà comunque utile sapere che, nella poesia haiku, esistono 5 kigo, che vengono percepiti come principali e apicali: i fiori di ciliegio (primavera), il cuculo (estate), la luna e le foglie rosse (autunno) e, infine, la neve (inverno).
La linea generale di questa antologia è quella di presentare haiku contraddistinti da kigo, o, almeno, dalla presenza del cosiddetto “piccolo kigo”, ovvero un riferimento non alla stagione, ma a una parte specifica della giornata.
TAGLIO E GIUSTAPPOSIZIONE. Con questi due termini si traducono generalmente due vocaboli giapponesi specifici, che sono rispettivamente kireji e toriawase e che costituiscono l’ultimo carattere formale fondamentale dello haiku. Ma andiamo con ordine.
Nello haiku tradizionale sono il più delle volte descritte due immagini (ne esistono però anche di tre – in effetti rarissimi – e di una). Queste due immagini sono in genere separate tra loro e tale separazione, spesso sia sintattica che contenutistica, è segnalata da particelle verbali che, in giapponese, vengono appunto indicate col nome di kireji (ossia taglio o cesura) e che tendono a veicolare due funzioni principali: quella di punteggiatura (quasi assente in giapponese nella forma grafica a noi nota) e quella di segnalazione emotiva. Oltre a separare, il kireji dà anche, per così dire, un tono specifico alla separazione: dubbio, attesa, sorpresa, esclamazione, conclusione e così via.
Tale separazione è a sua volta funzionale alla giustapposizione o, in certo senso, connessione delle due immagini, ciò che va sotto il nome giapponese di toriawase. Queste, infatti, sebbene separate, sono allo stesso tempo anche collegate da un invisibile filo rosso (a cui il kireji è funzionale), il cui ritrovamento è però affidato al lettore, che viene coinvolto in prima persona nella lettura e interpretazione dello haiku spesso polisemantico, almeno dal punto di vista soggettivo del fruitore. Un buon haiku, infatti, non è un vuoto virtuosismo o la semplice fotografia di un momento, ma, attraverso le immagini rappresentate e la loro toriawase, contribuisce a innescare delle risonanze spirituali nel lettore, che spesso troverà in quei tre versi un significato personale più profondo e al di là degli oggetti realisticamente raffigurati.
Da queste brevi definizioni, risulterà chiaro come non sia semplice “tradurre” in italiano tutto ciò, che è rappresentato dall’elemento del kireji. E’ ormai convenzione diffusa in occidente, tuttavia, utilizzare i tradizionali segni d’interpunzione (trattino “-” compreso) per segnalare tale funzione così rilevante ai fini dell’economia poetica del componimento e della sua corretta comprensione, insieme a tutti gli strumenti sintattici del caso, come, ad esempio, le interiezioni o, in una lingua come il latino, il costrutto dell’ablativo assoluto.
E’ d’uopo tuttavia segnalare che esistono altre “scuole” occidentali, che seguono una linea diversa, per cui la punteggiatura, a meno che non sia assolutamente necessaria per evitare dannose incomprensioni, resta esclusa dalla stesura dello haiku.
LO SPIRITO DELLO HAIKU. I caratteri formali descritti fino a questo punto, ovviamente, non sono mai fini a se stessi, ma costituiscono l’impalcatura esterna dello haiku, all’interno della quale si sviluppa quello che viene spesso indicato come “lo spirito dello haiku”. Spirito estremamente complesso, profondo, spesso insondabile e, perchè no, misterioso (quasi come il concetto giapponese di yugen, connesso non a caso alla poetica haiku), che però si affida per intero alle mani e agli occhi del lettore, ma senza mai mostrarsi nella sua completezza: sta al lettore stesso ricercarlo attivamente, percepirne le vibrazioni in quella esperienza di lettura unica, che è tipica e forse esclusiva di questa forma poetica.
Uno haiku, dunque, non è tale solo perché rispetta le regole formali che abbiamo appena indicato, ma, nel breve spazio delle sue 17 sillabe, deve risultare qualcosa di vivo e tangibile, che, attraverso le sue immagini e i suoi contenuti molto spesso legati al mondo della natura, sia in grado di risuonare in profondità nelle corde dell’animo del lettore, senza mai, però, affermare direttamente verità universali o morali. Lo haiku, infatti, non afferma, non dice esplicitamente, ma piuttosto adombra e suggerisce garbatamente, attraverso il suo linguaggio mai astruso ed eccessivamente retorico o ricercato, ma caratterizzato invece dalla stessa semplicità di quelle immagini vive eppure umili, che vanno a costituire il suo oggetto di ispirazione poetica.
Certo, l’esperienza morale, il campo delle verità universali, così come quello della molteplice e varia emotività umana e non solo sono tutt’altro che estranei al dominio dello haiku: la vera differenza, tuttavia, tra questo antico genere di poesia e quelli generalmente occidentali è che, in questi tre brevi versi, tutto ciò che riguarda la nostra più profonda esperienza della vita e della quotidianità non è mai espresso a chiare lettere, mai viene gettato, quasi con una maleducata insensibilità, in faccia al lettore.
Elementi di questo tipo, così fragili, delicati e allo stesso tempo radicali nell’ambito dell’esperienza individuale e collettiva, sono come protetti e accuditi dal tocco lieve e attento dell’estetica haiku, che cela e nasconde le sue preziose lacrime di giada nelle immagini naturali, nelle atmosfere delle stagioni che si rincorrono senza posa, nel taglio invisibile che allo stesso tempo separa e unisce, nel commento e nell’osservazione genuini, trasparenti e immediatamente aderenti a quella natura che, insieme al poeta e al lettore, va a comporre e costituire un tutto, un “noi” totale e privo di soluzioni di continuità e di cui la vita e la morte non sono che passaggi e trasmutamenti.
Le immagini di questi versi giapponesi non sono mai mute e mai si riducono a impressionistici bozzetti di stampo realistico, come certa vulgata occidentale vorrebbe far credere. Sta però al lettore tendere l’orecchio e cogliere la silenziosa ma assordante voce di questi fiori poetici.
Lo haiku, non rivela segreti, non (s)vende verità filosofiche, ma, al contrario, dipinge esperienze, propone suggestioni, rappresenta immagini, che, di volta in volta, sono suscettibili di risuonare in maniera diversa nello spirito di chi si dedichi alla lettura di questi tre brevi, ma infiniti versi. E d’altronde, non è forse composta da sole tre corde anche la frenetica musica dello shamisen?
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