Descrizione
La bandella di Fabio Martini
È vero, siamo cresciuti tutti, tutti quanti. Ma cosa abbiamo guadagnato? È spiacevole dirlo ma la maturità ha un prezzo, e quel prezzo è la consapevolezza che la stagione migliore è andata. La nostra autrice, qui, si impegna a molestare la propria memoria, e ciò che ne esce è un raccontare armonioso, arrendevole se vogliamo, per quello che mai più sarà, per ciò che è stato, per il presente sfuggevole, in uno scrivere semplice come di una adolescente cresciuta. Perché la maturità è il tempo delle reminiscenze, quelle degli amori belli e quelli degli amori tossici. I ricordi di bene e anche quelli di male. Scritti con la mano di quella ragazzina, nell’età in cui l’autore è voluto rimanere. Ed è una tecnica stramaledettamente convincente.
Cos’è che differenzia l’uomo dalla più nobile delle bestie? La memoria ovviamente. È la memoria che ci permette di tramandare gli alfabeti, le scritture e l’intero scibile messo faticosamente insieme in seimila anni di civiltà. Il pensiero stesso senza la memoria non avrebbe senso, sarebbe un cane che si morde la coda. In quanto è la memoria, anche se con tutti i suoi tiri mancini, i suoi sgarbi e i suoi acciacchi, che resta alla fine l’unico metro tangibile di misurazione del tempo perché noi segniamo la nostra storia proprio secondo i ricordi.
Lontano però dal voler fare filosofia spiccia, ritorno ai racconti di questa raccolta e per farlo, chiedo in giro se nessuno può prestarmi due occhi da preadolescente, perché, per tutto il libro, racconto per racconto, l’autrice ci accompagna in una stagione, quella della narrativa d’amore, di cui non fornisce alcuna coordinata, se non quella della sensazione pregna e traumatizzante a volte, oppure dolce come il miele, oppure d’amore profondo che preclude sia incondizionato all’amore stesso. E a loro volta, gli stessi racconti, non sappiamo se siano bambini o nerboruti giovanotti, o uomini di fatto, ma la malinconica suggestione con cui si intravedono i ricordi è evidentemente tipica d’una condizione giovanile dove la cinepresa della mente ruota a 360° attorno ad un mondo che pare a volte ormai morto e sepolto e a volte vivo, come la natura e come la pioggia. E infine la sensazione dell’innocenza, laddove l’essersi perduta è un cruccio, così come l’odierna incapacità d’impaurirsi, di ficcarsi sotto il letto al primo lampo o al primo temporale.
I racconti della nostra Carla Davì – che quando dichiaro d’amore, non intendo solo d’amore tra gli individui, ma d’amore del tempo che passa, d’amore del colpo di mano, del gesto passato, delle figure genitoriali, delle origini del percorso personale che diviene origine generazionale e comportamentale, origini totali nel riconoscere d’amore il senso suo, del suo totale essere veramente – sono sparsi e galleggiano pasci come ninfee su un lago senza sponde. Amori quasi senza fine. Tuoni che seguono i lampi, chicchi di grandine e chicchi di grano, alla fine della lettura, sparsi sullo stesso palmo della mano che ne regge tra le dita la quarta di copertina.
Buona lettura a tutti e viva L’Inedito Letterario.